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LE LEGGENDE DELLO SPERONE/ OGNI 100 ANNI DI GIUSEPPE D’ADDETTA (9)

Era buio sul mare, quella notte ormai lontana. Ed era tutto silenzio e mistero. Mor­morava solo l’acqua che la prora spartiva e la grande vela arancione della paranza qual­che volta batteva sgonfia per il cessare della brezza,

Tacevamo, seduti a prua, sognando la lu­na bianca nella notte nera, mentre ascolta­vamo i battiti dei cuori vicini che si sentono quando intorno è quiete e nell’animo gar­risce la giovinezza.

A poppa, il marinaio di mezza età che go­vernava la barca, s’indovinava dal chiarore che arrossava l’apice della pipa ad ogni boccata di fumo. Neanche lui parlava; taceva con noi e con la notte.

La mia compagna mi si strinse di più.

Hai paura ?

No; ma vorrei scendere a riva, guar­dare da terra questo buio misterioso che pesa sull’acqua, temerlo ancora di più e poi pro­vare più forte la sensazione di andare in­contro all’ignoto, quando riprenderemo il mare.

La vela fu spostata e docile la paranza, dopo qualche minuto, si arenò con la chiglia.

La riva era ciottolosa; un taglio quasi perpendicolare mostrava appena, nell’oscurità, il candore della costa alta, da dove si affac­ciavano le chiome dei pini che s’intravvede- vano soltanto come schermi forati dalla lu­centezza delle stelle.

Camminammo un po’; la ghiaia scricchio­lava sotto i nostri passi, con uno stridìo che nella notte s’incupiva. Poi ad un tratto ci si parò davanti, come un enorme fantasma bianco, una roccia alta, conica, alla cui base mormoravano le ondine in una carezza lieve che cessava e riprendeva, e schiumava ap­pena nell’infrangersi ai piedi del faraglione.

Lontano, su Vieste, un chiarore rossastro interrompeva il buio che avvolgeva terra e mare.

Tornammo. Il barcaiuolo ci attendeva sulla riva, con le mani congiunte sul dorso e la pipa spenta fra le labbra. Ed a lui chie­demmo cosa era quella roccia alta che nella notte ci era apparsa come un enorme fan­tasma bianco. Scorgemmo appena lo incre­sparsi delle guance in un breve sorriso, men­tre il marinaio tentennava la testa dall’indietro in avanti quasi ad esternare un grave pensiero che in quel momento gli serrava il cervello.

Poi disse: E’ una storia lunga e dolorosa e potrebbe anche sembrare una favola se qual­che vecchio pescatore non assicurasse che è vera perché se ne è accertato personalmente. Andiamo a sederci sulla barca e ve la rac­conterò.

L’acqua ci sembrò più fredda quando ab­bordammo la paranza coccolata dalle piccole onde. La vela era ammainata; l’albero si sperdeva nel buio.

Dalla poppa cominciò a giungere a prua, la voce cupa del barcaiuolo, che nel silenzio assumeva, alle volte, tonalità strane quasi uscisse dal fondo del mare. E la voce strana diceva.

* * *

Qui siamo sul limite estremo del Promon­torio, dove la terra maggiormente s’insinua nel mare. Quel faraglione si chiama Pizzimunno ed è davvero un fantasma come a voi è sembrato, anche se di pietra.

La piccola rada di Vieste — voi lo avete visto — è sbarrata da uno scoglio lungo e basso, battuto ora dalle sciabolate luminose del faro.

Vieste è un’antica cittadina che — dicono — fu fondata da Noè su questa piccola rada, dopo il diluvio universale. E non v’era ancora a rimirarsi nel mare, al tempo in cui av­venne la storia che vi narro. Al suo posto, poche capanne si sperdevano fra i pini.

In una di quelle capanne, aggrappate al dorso del colle da dove le mura nere dello sbrindellato castello guardano ora il mare, vi­veva la più bella fanciulla di tutto il Gar­gano. Era più bella del sole quando sorride all’aurora, della rosa quando schiude all’alba la sua prima corolla. Dicono che si chiamasse Vesta e che di lei anche i fiori fossero inna­morati, tanto grande era la sua bellezza. E quando Vesta passava, si aprivano tutti per profumarle l’aria che respirava.

Vicino alla riva, in un’altra piccola capan­na che le onde bagnavano durante l’alta ma­rea e davanti alla quale s’arenava la barca nei giorni di burrasca, abitava Pizzimunno, un pescatore dalle membra perfette e vigoro­se, tutto il giorno in mare. Quando l’acqua era trasparente, Pizzimunno scorgeva in essa visi bellissimi di donne, mentre canti maliosi echeggiavano nell’aria. Poi, come quei visi si innalzavano fino al pelo delle onde, il canto s’irrobustiva e la melodia s’avvicinava. E du­rava a lungo, conturbante, mentre dal mare uscivano a mezzo busto bellissime ragazze bionde e brune che sorridevano al pescatore tutt’intorno alla sua barca.

Di tanto in tanto cessava il canto e le voci carezzevoli invita­vano Pizzimunno a scendere negli abissi del mare dove l’attendeva un regno fiabesco e tutto il loro amore. Sarebbe stato il loro si­gnore, le avrebbe prese tutte o soltanto quelle che desiderava e quando le volesse. Felici anche le altre di poterlo guardare soltanto, di una sua carezza, di una sua parola. E gli avrebbero donato la loro stessa immortalità, con il loro amore eterno. Ma Pizzimunno amava Vesta ed alle sire­ne rispondeva che la sua amante era sempre la più bella; di loro nessuna reggeva al suo confronto. E una carezza di Vesta valeva tut­ta l’eternità che esse volevano donargli.

Quando a sera ritornava nella rada, Ve­sta l’attendeva sulla spiaggia per salire sulla sua barca ed andare insieme sullo scoglio piatto che chiude la cala, soli con il loro amo­re a cui il mare cantava la sua canzone sen­za fine.

Illividivano le sirene quando, nelle notti di luna, scorgevano sullo scoglio gli amanti. E nei giorni successivi, più dolci erano le lo­ro voci ed i loro canti, più promettenti i loro sguardi, più tentatori i loro sorrisi nell’ansia di conquistare il bel pescatore, che finalmente un giorno disse loro:

— No, sirene, io amo il mare, i vostri can­ti che ripetono le onde quando voi non ci sie­te, tutto l’oro del sole fra il turchino che cir­conda la mia solitudine, ma amo di più Ve­sta che nel suo corpo incatena il sole, che ha negli occhi il glauco delle onde, e tutte le vostre bellezze nella sua. Siatemi sorelle nella sconfinata solitudine marina; ma amanti no perchè solo Vesta io amo.

Allora le sirene lo minacciarono. Ed egli rise perchè non così, con le minacce, sarebbe finito il suo amore per Vesta, nè il suo cuore avrebbe cessato di amarla. Le sirene allora si consultarono. Non pote­vano sopportare che un misero e mortale pe­scatore si irridesse di loro, ed una fanciulla terrena le vincesse in amore; vincesse loro, le ammaliatrici a cui nessuno aveva mai resisti­to.

E dal consiglio di tanta gelosia, venne fuo­ri una sentenza terribilmente crudele che nell’eternità avrebbe fatto soffrire i due a- manti.

Tacque per un momento il marinaio.

Nella notte scura spirava appena un alito di vento. La barca era immota sull’acqua; il mistero aveva ansie e palpiti sospesi.

Vesta, solo tu sei tutta la mia vita, sus­surrò una notte sullo scoglio Pizzimunno, a conclusione dell’ultimo racconto delle lusin­ghe delle sirene e delle loro minacce.

Pizzimunno, ho paura. Sento che qual­che cosa di molto grave pesa sul nostro de­stino.

La voce di Vesta era flebile, accorata.

La luna guardava, alta nel cielo; la terra e il mare sorridevano al suo argento senza calore. Sullo scoglio solitario si ripercuoteva il fremito delle onde.

Ad un tratto un canto dolce s’intese e pa­reva lontano.

Pizzimunno rise credendo ad un altro ten­tativo delle sirene in presenza della sua aman­te. Vesta tremava.

S’avvicinava sempre più il canto.

Non lontano ma dalle onde ora sgorgava e saliva su dal fondo, lento ma sempre più vi­cino, più dolce, più tenero e gli amanti immo­bili ascoltavano, con gli occhi fissi sul mare, e non si accorsero che alcune sirene erano al­le spalle di Vesta. Ad un tratto la fanciulla fu stretta da catene ed uno strappo forte la fe­ce cadere in acqua mentre il giovane, come pietrificato, guardava ingorgo che ribollì bre­vemente sulla testa dell’amata. Poi si riscosse e si tuffò quasi a raggiungere il fondo. Sghignazzava ora il canto lontanando e Pizzimunno lo seguiva a nuoto nella speranza di raggiungere Vesta.

L’alba che seguì vide sulla riva quella roc­cia alta e bianca che a voi è sembrata un fantasma. Da quella notte Pizzimunno non è più apparso nella rada.

Vesta fu trascinata lontano, negli abissi marini. E i suoi occhi videro un regno fiabesco, antri splendidi che si susseguivano all’infini­to con volte frastagliate di madreperla, dei quali un mare turchino e trasparente forma­va il pavimento. E da quel pavimento le sirene uscivano a mezzo busto, bellissime nel volto e con negli occhi un odio terrificante. E bef­favano Vesta, la bella del mondo, e la invita­vano a invocare il suo Pizzimunno perchè ve­nisse a riprenderla.

Poi Vesta sentì che i piedi le diventavano di ghiaccio. E il ghiaccio salì pian piano su fino al capo; ed al posto di quella fanciulla bella come il sole, la più bella che abbia vi­sto il Promontorio, si formò una stele di co­rallo rosa, intorno alla quale le sirene sarabandarono.

Si fermò ancora il marinaio nel suo dire.

La mia compagna emise un profondo so­spiro come a liberare il cuore da un incubo; e , con le mani strinse il mio braccio perchè te­meva le sirene in quel buio che il racconto del barcaiuolo rendeva più misterioso.

Il marinaio riprese.

Nessuno sà con precisione dove sia il regno fiabesco delle sirene. Tutti però dicono che si trova fra le Tremiti e la costa garganica. E la stele di corallo rosa in cui Vesta è trasfor­mata, dal suo apice goccia sempre lacrime mentre una catena di cento maglie la tiene assicurata ad una grande colonna che sor­regge la volta dell’antro. Le lacrime cadono come perle fosforescenti sull’acqua azzurra che circonda la stele e si ammucchiano alla sua base quasi a formarne il piedistallo. Ma se una sirena le tocca, si liquefanno e tornano stille di acqua nell’acqua.

Ogni cento anni però, gli amanti rivivono su quello stesso scoglio dove trascorsero l’ul­tima notte d’amore. E lo scoglio piatto che chiude la rada s’illumina di gioia.

Ma quando all’alba Vesta e Pizzimunno cercano di fuggire verso la terra dove le sire­ne non potrebbero raggiungerli, la catena si tira ed il mare inghiotte di nuovo Vesta mentre Pizzimunno guarda ancora inebetito il gorgo che ribolle.

Poi comincia a nuotare seguendo il canto delle sirene e si rinnova l’incanto sulla riva che ci è vicina; li si riforma quel faraglione che a voi è sembrato un fantasma.

E che questo accada, lo hanno assicurato vecchi pescatori i quali inutilmente in una notte hanno cercato il faraglione senza tro­varlo. Eppure conoscono la riva palmo a pal­mo.

Ma nessuno riesce a ricordare la data in cui l’incantesimo di Pizzimunno s’interrompe. Si sa solo che la notte è buia, con poche stel­le, nella calma più assoluta del mare.

Potrebbe anche essere questa notte, disse la mia compagna.

Si, potrebbe essere, rispose il pescatore.

E con un remo spinse sul fondo per disin­cagliare la paranza dalla sabbia fine in cui si era arenata.

Giuseppe D’Addetta

Scrittori Dauni – 1960 –