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PIETRO GIANNONE E L’ORGOGLIO DEI SUOI NATALI DAUNI

“Io nacqui da onesti paren­ti a sette di maggio dell’anno 1676 in una terra del monte Gargano, nella Puglia de’ Dauni chiamata Ischitella, prossima a’ lidi del mare Adriatico di­rimpetto all’isole Diomedee, ora dette di Tremiti. Allevato nell’infanzia dalla non men pia che savia mia madre, Lucrezia Micaglia, ed erudito negli eser­cizi di pietà con somma accuratezza e religione, fui mandato a scuola ad apprender grammatica dall’arcipre­te di quella chiesa, uomo versato nel­la lingua latina per quanto comporta­va la condizione del luogo, ma molto più commendabile per la sua probità e per l’esemplari ed incorrotti suoi co­stumi”.

E’ ben raro che in un’autobiografia uno scrittore italiano parimenti illu­stre abbia con tanto orgoglio ed amo­re scritto del luogo natio, della ono­rabilità della sua famiglia e dei suoi primissimi educatori. Gli è che Pietro Giannone si sentiva fiero d’essere garganico e quindi dauno: ci teneva an­che a precisare che della sua regione natale, le Puglie, egli era nato in quel­la parte che era detta Puglia de’ Dauni (e voleva dire Daunia e non, alla gre­ca Capitanata) perché sentiva l’orgo­glio dell’appartenenza a una stirpe antica, che aveva preceduto la Gre­cia e Roma nella civiltà del Mezzogior­no d’Italia.

Pietro Giannone non fu soltanto un grande storico, amante della sua terra natale, delle cui vicende nelle sue opere mai omise di scrivere: fu, come oggi usiamo dire, un caposcuo­la, l’esponente più alto di un movi­mento di pensiero che, irradiandosi nel Settecento dai confini del maggio­re degli Stati italiani dell’epoca, il Re­gno napoletano, seppe parlare a tutte le correnti illuministe europee.

Nessu­no vuol porre in dubbio che suoi modelli storiografici abbiano potuto es­sere lo storico della Chiesa e giurista Claude Fleury (1640-1723) e il giurisdizionalista e altro storico della Chiesa Louis Ellies Du Pin (1657-1719), assie­me al grande giureconsulto olande­se, storico e letterato Huit van Groot (Grozio: 1583-1645). Non bisogna dimenticare che il Giannone era im­bevuto di seri studi giuridici ed esi­mio avvocato. Ma fu proprio questo suo legame con il Gallicanesimo e, al di là di esso, con i maggiori scrittori protestanti, che fece di lui un euro­peo, pur se la sua “Istoria civile” par­lava solo del reame di Napoli. Ciò che in quell’opera, a differenza delle “Institutiones Juris Civilis Neapolitanorum” di Giuseppe Maffei (1728-1812), era nuovo e richiamava l’attenzione non era il suo contenuto, bensì il pun­to di vista dal quale l’autore era par­tito, l’aver accentrato l’intera anali­si storico-giuridica nella scoperta di due forze opposte, il potere tempo­rale e quello spirituale, così da ricon­durre a quel contrasto l’intero svilup­po della storia del Regno.

Partendo dalla stessa polemica del Grozio nei confronti di Roma, an­che il Giannone abbandonò le ricer­che e gli studi del diritto romano, al­lora in voga, spostando la sua atten­zione sulla crisi di quel diritto e deli­neando per quella via le origini del po­tere temporale della Chiesa. La crea­zione di un Impero nell’Impero aveva, a suo avviso, portato di conseguen­za che “il diritto canonico non pote­va più riguardarsi come appartenen­za del civile … Se n’era già fatto cor­po a parte, separato ed indipendente, che riconosceva altro monarca e legi­slatore, anzi, emulo delle leggi e del diritto civile”. Di qui la necessità di scrivere una storia che tenesse conto “non meno dell’uno che dell’altro sta­to”, fissando i confini dei due poteri, per meglio denunciare gli abusi e gli illegittimi sconfinamenti. Sono con­cetti apparsi nella “Istoria civile del Regno di Napoli (1733) ma che ritroviamo nella “Vita scritta da lui medesimo”: “Nella mia Istoria civile … non ebbi altro scuopo, che di manifestare e porre in più chiara luce i confini che tramezzano l’imperio e il sacerdozio; affinché, resigli più apparenti e chiari, ciascuno potesse accorgersi del­le sorprese che eransi fatte dal sacer­dozio sopra la potestà de’ prìncipi, e quanto da ciò fosse scemato il loro imperio, che Iddio glielo diede sovra­no, intero e perfetto sopra i loro Stati, per governare essi, e non altri, i loro sudditi”.

L’età post-costantiniana venne così intravista come il nodo storico di tutto il successivo sviluppo del potere religioso e. mentre il Grazio volle opporre a Roma l’esaltazione delle po­polazioni barbariche [e lo se­guì in questo Ludovico Anto­nio Muratori (1672-1750), che fece dei Longobardi il centro del proprio regalismo], il Giannone ebbe l’audacia, lui catto­lico, di rimettere in discussio­ne le stesse origini del potere temporale della Chiesa (non le origini della Chiesa, come altri hanno erroneamente detto!), dandoci il suo capolavoro, “Il Triregno”, edito postumo solo nel 1895, storia dei regni terre­no, celeste e papale.

Altri, in quei medesimi anni, partendo da basi diver­se e per fini diversi, vollero af­frontare quella stessa storia, dando luogo a un imponente, quanto vasto, lavoro di criti­ca testuale, che riconosceva come per suo nodello il “Tractatus theologico-politicus” di Ba­ruch Spinoza (1632-77).

Ma, mentre a quelle correnti potremmo ricondur­re i “Discours moraux, historiques et politiques” (1730) del Conte Radica­ti di Passerano, difficilmente potrem­mo inserirvi anche i tre libri del “Tri­regno”, pur se l’influsso spinoziano è in più punti riconoscibile.

La differen­za maggiore tra il dauno e lo scrittore piemontese consiste nel fatto che questi chiedeva al suo principe una posizione di lotta impossibile a soste­nersi, per il suo contenuto religioso, nel suo retrogrado Paese, mentre il Giannone indicava una strada salda­mente ancorata alla realtà politica di un’Italia, i cui prìncipi, come ricordò Piero Gobetti (1901-26) nei confronti del potere ecclesiastico erano “inte­ressati all’indipendenza soltanto per arte di governo, ossia per le loro lon­tane aspirazion assolutiste”.

Nemmeno tanta prudenza salvò il Giannone, malamente assistito a Vien­na e da ultimo abbandonato al suo de­stino; tradito dalla corruzione della Corte di Carlo VI, impedito a rientra­re in patria da quello stesso principe che, più di ogni altro, mostrava di vo­ler far tesoro dell’insegnamento del­la “Istoria civile”. Messi di fronte all’in­teresse politico i prìncipi abbandona­rono al suo triste destino il difensore dell’intangibilità del diritto degli Sta­ti. “L’aver sacrificato – scrisse il Gian­none – la mia vita, i miei studi e i miei pochi talenti da Dio concessimi, nien­te giovommi, per acquistarne una valida lor protezione … Anzi il duro mio destino me gli rivolse al contrario, e fece che io gli sperimentassi sdegnati ed avversi”.

Alla dottrina del Gianno­ne, tuttavia, si richiamarono sia Carlo III che Ferdinando IV di Borbone e il Regno delle Due Sicilie finì col conce­dere una pensione annua di 200 du­cati “al figlio del più grande, più utile allo Stato e più ingiustamente perse­guitato uomo che il Regno abbia pro­dotto in questo secolo: tale fu la mo­tivazione del R. Dispaccio dell’8 marzo 1769.

Nella “Vita scritta da lui medesi­mo” appare chiaro come nella men­te del Giannone il “Triregno” non fos­se che la continuazione di una ricerca iniziata in gioventù e proseguita con la redazione dell’ “Istoria civile”, sino a investire, negli anni trascorsi a Vien­na, il tema più ampio dello “innalza­mento d’un sì nuovo imperio sopra i regni e domìni dei principi”. Studian­do soprattutto attraverso quale evo­luzione si fosse potuti giungere, “per trascuraggine e ignoranza di que’ se­coli passati”, ad una giurisdizione che non aveva alcun rapporto con le cose di questo mondo: perché il Regno di Dio non è di questa terra, né il Reden­tore “venne in terra a togliere a’ re gl’imperi lor terreni e mortali, ma a dare agli uomini regni immortali e ce­lesti”.

A tal punto il Giannone sente il bi­sogno di affrontare il tema delle ori­gini del Cristianesimo e di riprendere, perciò, “i tralasciati studi di filosofia e, col soccorso dell’istoria, d’investi­gare più da presso la fabbrica di que­sto mondo e degli antichi suoi abita­tori, dell’uomo, della sua condizione e fine”; fu, il suo, il forse pretenzio­so tentativo di sistemazione teorica dei principi della “Istoria civile”, tan­to che Natalino Sapegno volle riconoscere nel Triregno le linee fondamentali tali d’un progetto di riforma religiosa, attraverso la quale lo Stato potesse giungere a coordinare, ai propri fini, .l’ideologia religiosa. Se davvero fosse stato così, sarebbe indubbio che qui Giannone cadde in errore.

Ma il senso e i limiti del suo pen­siero sono ben precisati nella sua au­tobiografia, dove il Giannone scrive che nei suoi discorsi, nelle sue opere, mai entrò “a discutere di cose che ap­partenessero a’ punti capitali di no­stra religione”, né pretese, mai, di fare il censore o il riformatore.

Che egli mai abbia inteso rinunciare alla sua confessione di fede cattolica, optan­do per il campo dell’eresia, è in essa ribadito di continuo e ne è prova la sua condotta durante il breve soggior­no ginevrino. La calvinista Ginevra gli apparve nel fulgore del suo mito poli­tico di repubblica libera e pacifica e non per quanto essa rappresentava nel composito mondo della Riforma protestante. Per chi aveva sperimen­tato di persona come si fossero ormai perdute la libertà e la tolleranza che erano state alla base del senso dello Stato nella Serenissima Repubblica di Paolo Sarpi (1552-1623), Ginevra non poteva apparire che come il deluden­te contraltare della Venezia a lui con­temporanea.

Convinto cattolico, ripudiava la Riforma e ben sapeva pure che una sua conversione a essa avrebbe ab­battuto con un sol colpo tutta la sua difesa delle pari libertà della Chiesa e dello Stato.

Se si fosse potuta indicare la “Isto­ria civile” come lo scritto di un acat­tolico, l’edificio giurispolitico (cosa ben diversa da giurisdizionalista!) da lui innalzato sarebbe stato scosso dalle fondamenta, né a esso avrebbero potuto più richiamarsi gli amici rima­sti a Napoli a condurre la battaglia in favore di esso, proprio in un momen­to in cui quella lotta era stimata vi­tale per uno Stato assurto nuovamen­te a Regno indipendente sotto Don Carlo di Borbone. Era per quella bat­taglia che egli aveva approntato la sua nuova opera ed egli si era recato sulle sponde del Lemano, solo perché sperava che colà potesse vedere la luce per i tipi di un non pavido editore, in patria non rinvenuto.

Ma il pensiero giannoniano non fu conosciuto, dai suoi contemporanei, se non attraverso la “Istoria civile” e gli scritti po­lemici e difensivi che a essa si accompagnarono. Mancarono alla conoscenza del mondo con­temporaneo sia il Triregno che l’autobiografia, sebbene di en­trambi si avesse notizia. Di quei testi si impossessò più tardi il movimento risorgimentale ita­liano, ma nella sua ala anticlericale, con Paolo Stanislao Man­cini.

Ciò impedì che la figura del Giannone cadesse nell’oblio, ma fu inserita in quel mito, di cui già erano avvolti Giordano Bruno (1548-1600) e Tomma­so Campanella (1569-1639), tut­ti accomunati in un’unica aure­ola di martirio. Il Giannone servì così alla battaglia contro il potere tempo­rale della Chiesa, ma a tutto scapito, però, di una seria e misurata lettura del suo pensiero, atteso che gli inten­ti editoriali che si susseguirono, furo­no, prima di tutto politici e mancanti di serietà filologica.

Questi malintesi non sono valsi a sconfessare l’epigrafe che di lui det­tò il R. Dispaccio dell’8 marzo 1769: “il più grande, più utile allo Stato … pro­dotto in questo secolo …

… Ed era un garganico, un dauno, un figlio, forse davvero il più gran­de, di una provincia che figli illustri in ogni tempo ha dato alla patria ita­liana.

Emilio Benvenuto