Aveva soltanto otto mesi quando cominciò ad articolare le prime parole. Ad un anno sapeva già mettere insieme molte frasi; a sei era di una loquacità opprimente. Si vedeva spesso la madre affaccendarsi per la casa con un fazzoletto bianco legato stretto sulla fronte perché le sembrava che la testa le dovesse scoppiare per il continuo chiacchierio della figlia. E il padre, quando la sera tornava dal lavoro, consumava in fretta la modesta cena e poi usciva subito per sottrarsi all’inesauribile discorrere della bambina.
L’epidemia della spagnola privò Nannuccia, diciottenne, di entrambi i genitori. Nessun parente la volle in casa per scansare i pasticci che combinava cicalando a sproposito con tutti e la noia di sentire continuamente la sua voce. Perciò Nannuccia viveva sola nella sua abitazione a mezza strada dell’erta che dalla piazza menava alla torre sopravissuta del vecchio castello, posta sulla cima della collina intorno alla quale il paese si arrampicava pittorescamente.
Sul poggiuolo, cinto da una ringhiera di ferro, trascorreva i giorni in ciance con le comari e con i passanti, sia che il caldo riempisse la strada, sporca, di una miriade di mosche, sia che il freddo accapponasse la pelle. E quando non poteva stare all’aperto, tratteneva in casa con mille ciarle chiunque vi capitasse, e, se sola, ai colombi che allevava ed al gatto pigro, faceva lunghi discorsi.
Ma era graziosa Nannuccia nella sua abbondante capigliatura castana, col suo naso fine e diritto ed il personale snello su cui fiorivano i seni prepotenti. Ed aveva anche qualche terreno al sole e la casa completamente arredata. Qualche contadinello attardava su lei lo sguardo; ma scuoteva poi la testa perchè tutti sapevano della lingua di Nannuccia.
Compar Michele però la guardava senza scuotere la testa grossa, sulla quale qualche filo bianco era già nel nero dei capelli setolosi. Abitava nei pressi del castello e passava quasi tutti i giorni avanti la casa di Nannuccia per recarsi in piazza dove convenivano braccianti ed assuntori.
Piaceva a compar Michele, prima di rincasare, specialmente di sera, fare una capatina all’osteria che era all’angolo, nel tratto più largo della strada, dove zia Lucia, dai capelli crespi e d’argento sulla bassa e grassoccia statura, aveva per tutti gli avventori un sorriso materno e del vino buono e spumoso non sempre annacquato. Ed ogni volta che trovava Nannuccia sul poggiuolo, compar Michele si fermava a fare con lei quattro chiacchiere fin quando il collo non gli doleva per la posizione scomoda della testa costretta a stare rivolta verso l’alto, da dove scendevano i lampi degli occhi chiari della giovane comare ed i suoi sorrisi che dilatavano il rosso delle labbra sottili e scoprivano il bianco dei denti sani e bene allineati.
Avvenne che in un pomeriggio invernale, triste e piovoso, compar Michele bevesse più del solito e diventasse più arzillo del consueto. Nell’uscire dalla cantina rispose con un saluto brillo al sorriso materno di zia Lucia e s’incamminò per l’erta verso il castello. Giunse, il nostro uomo, all’altezza della casa di Nannuccia, vide la porta socchiusa e pensò bene di entrare per fare quattro chiacchiere con la graziosa comare.
Dopo un po’ si sentì scorrere il chiavistello interno della porta; il cicaleccio e le contenute risate cessarono e per qualche giorno non si vide compar Michele. La via divenne silenziosa e parve deserta. Parlò poco Nannuccia e stette ritirata in casa fino al giorno delle nozze. Poi, come una fiumana che a stento contenuta più furiosa riprende il suo corso dopo avere infranto l’ostacolo, diede sfogo alla sua loquela ed a tutti svelò finanche i particolari del primo amplesso.
Cominciarono così i guai per compar Michele che, forse per naturale compenso, divenne taciturno. Il continuo ciarlare della donna lo rese irascibile e nervoso. Per giunta da molte parti gli arrivavano lamentele e proteste per i pasticci che la moglie combinava nella sua mania di parlare sempre, inventando e travisando ogni cosa pur di non dare modo alla sua lingua di stare inoperosa. Le liti famigliari si fecero sempre più frequenti e non vi fu giorno in cui non si sentissero urli e trambusti partire dalla sua dimora.
E varie notti, nella quiete sonnacchiosa in cui sembrava dormissero finanche le case del vecchio paese, si udivano gli stridii di Nannuccia che, in camicia, scappava sul pianerottolo o in istrada per sfuggire alle furie del marito. Alle comari raccontava, il giorno dopo, che per aver detto una sola parola mentre erano a letto, il marito l’aveva picchiata. Compar Michele confidava invece che neanche quando si doveva dormire la moglie taceva e che, come al solito le sue pazienti preghiere per avere la grazia di un po’ di silenzio, erano rimaste inascoltate.
Una mattina si vide compar Michele uscire di buon’ora ed in fretta di casa, ed andare pensieroso verso la campagna. Poco dopo suoni gutturali e stentati allarmarono i vicini che, entrati nella abitazione, trovarono Nannuccia legata ed imbavagliata. E questa affermò che per aver detto una sola parola, quell’orso del marito l’aveva conciata in quel modo.
Compar Michele spiegò invece di non essere riuscito per tutta la notte a farla tacere e che infine l’aveva imbavagliata. Andarono così le cose per circa due anni. Finché un bel mattino fresco del tardo autunno, sulla porta della casa di Nannuccia, apparve, in gesso bianco, la scritta: « meglio l’inferno », e sotto, con un disegno primitivo, una lingua lunga infinite volte ramificata. Da allora nessuno sa precisare in quale parte del mondo si sia rifugiato compar Michele.
Ma si accerta che, all’amico con il quale per ultimo parlò in paese, egli abbia detto che il maggior castigo inventato da Dio per il tormento degli uomini su questa terra, è la lingua delle donne, perchè quello scemo di Adamo, dalla loquela di Èva si lasciò indurre in peccato.
Giuseppe D’Addetta
Scrittori Dauni – 1960 –
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