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LE NOVELLE GARGANICHE/ LA CARROZZA SENZA CAVALLI DI GIUSEPPE D’ADDETTA (5)

Aveva solo sei anni, quando, al principio del secolo, vide per la prima volta un’auto­mobile.

La macchina superò ansimante la salita e giunse in paese con a bordo un candidato politico che cercava di far colpo presentan­dosi con il nuovissimo mezzo, mai visto fino allora in quel collegio appartato e collinoso.

— La carrozza senza cavalli!… La car­rozza senza cavalli ! …

E la folla fece ressa intorno al veicolo dal quale discese, con sussiego e larghi sor­risi, l’aspirante deputato.

Ma la moltitudine non si accodò a lui, incantata dalla nuova meraviglia, al cui vo­lante un uomo sembrava avere qualche cosa di diabolico, come l’ordigno che pilotava.

Qualche vecchierella si segnò finanche, e tutti arretrarono timorosi allorché l’uomo in­fernale girò faticosamente la manovella di avviamento e, dopo vari tentativi, il motore cominciò a scoppiettare con un fracasso mai sentito nel borgo, e la macchina partì ce­lermente.

Così nella mente del bimbo s’era inserito, quel giorno, un mondo nuovo, fatto di strade senza fine e di straordinari veicoli brontoloni che le percorrevano a velocità fantastiche, sempre rincorsi da una scia bianca nella quale turbinava la polvere, trasportando uomini diversi da quelli fìn’allora conosciuti, inta­barrati in lunghi camici e con il viso ed i capelli imbiancati dalla soffice coltre che ri­copriva le vie e si volatilizzava al contatto delle ruote gommate, impazzite girandole sen­za scintille nella notte che seguì, il bimbo si vide al posto del conducente, seduto dietro l’enorme volante.

E poi, sveglio e nel sonno, sognò sempre macchine che rombavano, scie bian­che su strade polverose tormentate da veicoli sfreccianti, paesi sconosciuti, distanze annul­late, il nuovo mondo rivelatosi a lui in quel giorno che si faceva sempre più lontano. Il mondo nuovo la cui voce man mano s’irro­bustiva, mentre il nitrito del cavallo s’affie­voliva gradatamente, fino a diventare appena percettibile nel fracasso dei rombi e degli scoppiettìi ormai frequenti anche nel paesino sperduto del bimbo, fra le balze di una terra desolata.

Fin quando un giorno, e poi tutti i suc­cessivi, arrivò nel borgo, ansante, un autobus in servizio pubblico per il trasporto degli an­cora timorosi viaggiatori. Poi, sulla piazza del paese, racchiusa fra la scenografia asimmetrica delle case vivace­mente colorate, non vi fu più il bimbo ad attendere la rumorosa postale, che qualche volta sbuffava vapor d’acqua ed acqua bol­lente dalla bocca del radiatore, ma un ado­lescente a cui l’ordigno non era più assolu­tamente ignoto. E nel trambusto degli organi che il cofano nascondeva, gli sembrava alle volte di udire il palpito di un cuore d’acciaio, in una orchestrazione di fasi succedentisi ininterrottamente in quel complesso mecca­nico che l’uomo aveva meravigliosamente creato per accorciare le distanze e moltipli­care il tempo.

Ma sulle rotabili gli pareva sempre che corressero, impazienti spose fiabesche con lunghe code bianche e vaporose trasfigurate ad ogni istante dal vento, mentre ai bordi ancora s’impennavano e scartavano i cavalli, quasi a protestare contro il nuovo mondo che soppiantava il vecchio, divinamente.

Il bimbo intanto era diventato uomo.

* * *

Un’atmosfera tragica di guerra avvolse il mondo. E sulla piazza del paese si attendeva ogni giorno, con ansia, la carrozza sen­za cavalli che portava il giornale.

Ma non vi era più il vecchio bimbo. In lontane terre d’oltremare, egli sembrava un essere infernale ad altre genti che per la pri­ma volta vedevano l’automobile. Galoppava il suo autocarro grigio a gomme piene per pi­ste bucherellate e sconnesse, mentre ai margi­ni fuggivano gli armenti e gli equini, terroriz­zati dall’inconsueto mostro fragoroso che dal­la coda eruttava fumo e faville.

E nelle lunghe marce sulle retrovie, erano frequenti i suoi colloqui con il motore; ne interpretava il ritmo, gli starnuti, gli sfor­zi, l’affanno. Qualche volta doveva fermarsi perché anche da quel radiatore fuorusciva vapor d’acqua ed acqua bollente come dagli autobus che arrivavano al borgo natio. So­stava allora fra gli ulivi, e lui e la sua mac­china riprendevano vigore. E gli sembrava di essere nelle campagne del suo Mezzogiorno, ancora bimbo fra gli oliveti alti che dalle zolle fertili o anche dalle rocce grige si spin­gevano maestosi contro il cielo, così come in quella terra che un mare impastato d’azzurro divideva dalla sua.

Fantasie d’albe dorate e di tramonti mesti sul lago trascolorante dominato dai monti turchini, gli passavano per la mente durante le soste in cui la macchina si raffreddava, mentre alle volte gli giungeva l’eco delle can­nonate, terribile voce della morte vagante ar­cigna fra la gioventù abbrutita e forse senza domani. Poi la marcia riprendeva ed il motore rico­minciava a cantare la sua canzone gioiosa, su un ritmo più franco, con una voce più fresca, in un tono più alto.

* * *

Un giorno, una piccola automobile riportò in paese il vecchio bimbo, divenuto dottore, più orgoglioso della sua macchina che del titolo professionale. La prima e l’unica del bor­go; però molto più veloce di quelle di un tempo, quando il dottore era il bimbo atto­nito avanti l’automobile del candidato poli­tico, con il motore meno rumoroso e con la manovella d’avviamento sostituita da un bot­tone sul cruscotto che bastava premere per far girare il volano ed azionare gli organi.

E la piccola macchina del dottore, cantò allegramente per le balze e le valli d’una terra tormentata e solitaria, in un ritmo ce­lere e gioioso, come quello del cuore dell’uo­mo giovane che la guidava. Non bolliva l’ac­qua con il borbottio d’una pentola al fuoco mentre sul radiatore luccicava una scritta: Annamaria.

Perché alla sua macchina il dot­tore aveva dato il nome della mamma, ubbi­dendo ad un richiamo dell’anima che univa la donna e la vettura in un’unica passione. Che si confuse maggiormente da ima notte in cui la mamma si sentì molto male e fu urgentissimo un intervento chirurgico, im­possibile e praticarsi in paese. Docile la mac­china si mise in moto quando fu premuto il bottone del cruscotto e camminò saggia e veloce fino alla lontana città dove sapienti uomini in camice bianco vinsero la morte. Da allora la piccola macchina assurse ad al­tezza di idolo per il suo padrone.

* * *

Passarono gli anni.

La mamma ormai accusava il male delle molte primavere vissute e nessun prodigio poteva più vincerlo. Era un motore umano logorato dall’età.

Pure la carrozza senza cavalli era già vecchia e superata nella forma e nella mec­canica. Non bastava più riparare la carroz­zeria, sostituire pezzi, darle un volto nuovo con vernici fresche. Il male degli anni non si può combattere; era stanca la vecchia mac­china, come la mamma del suo padrone, stan­ca di anni. E sembrava che la stanchezza dell’una si comunicasse all’altra quando in qualche gior­no nessuna delle due poteva camminare. La mamma, tanto pallida da gareggiare con il candore delle lenzuola, era immobile a letto; solo negli occhi si rifletteva una vita debole, tenuamente.

La vecchia macchina non rispondeva più al bottone del cruscotto e neanche i giri af­fannosi della manovella d’avviamento riusci­vano a ridestare i battiti del monoblocco. Lu­cevano solo le cromature; sul radiatore bril­lava ancora Annamaria.

E in un giorno triste, si chiusero per sem­pre le pupille della mamma. Il cuore cessò di battere, il corpo esangue s’irrigidì ed as­sunse il freddo del metallo, simile a quello della piccola carrozza senza cavalli.

Ma quando si girò la manovella d’avvia­mento della vecchia automobile ferma da tempo, quasi per miracolo, il monoblocco ri­prese a battere. In coda al corteo, con ritmo stanco, Annamaria seguì il feretro della don­na della quale portava il nome. Poi fu riposta e da quel giorno nessuno più riuscì a met­terla in moto.

Solo al vecchio bimbo sembrava di udire nelle notti di vento, un sommesso rombo sa­lire dalla rimessa ed alternarsi con il mor­morio dei distanti cipressi, come in un col­loquio d’anime nel lento disfarsi della ma­teria.

Giuseppe D’Addetta

Scrittori Dauni – 1960 –