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IL NATALE NELLA TRADIZIONE GARGANICA

LA PREPARAZIONE

Nei tempi passati l’atmosfera natalizia non era preparata dal fragore dei “botti”, ma dall’ansietà di vivere un giorno insieme, in pace con se stesso e con i suoi e di godere le gioie delle pareti familiari, anche per non venir meno al detto “Natale con i tuoi, Pasqua con chi vuoi”.

Il Natale è stato sempre un appuntamento importante della vita (e spero che lo sia ancora) e ci si preparava non solo con fervore e trepidazione, ma anche con tanto spirito di religiosità. Era tanto sentita quest’attesa, che la si ricordava nelle ninne nanne, nelle cantilene, nelle filastrocche, nei proverbi e nei canti popolari sia sacri che profani. C’era nell’aria tanta frenesia da contare quasi quotidianamente i giorni mancanti per giungere a questa festività: “Sante Necola – a Natale diciannove”, “Santa Cuncètta – a Natale diciassètte”, “Santa Lucia – a Natale dùdece dìje”.

In tutti i paesi del Gargano, fin dai primi di dicembre, le massaie si affannavano a preparare riserve alimentari: cotognate, mostarde, vinecotte, sarde salate, prupate, taralle e scalfatìdde, ulive sotto sale e peperone sotto aceto, lampasciune sott’olio… Inoltre in quasi tutte le famiglie si faceva provviste di carne di maiale. Questo veniva allevato nelle proprie case e non si badava a spese, anzi si diceva Pe la feste dlu Redentore – accide lu porche – sanza delore. Si preparavano salsicce, sopressate, pancètte, gelatine di carne, sanguinaccio, e la sugna, i cui sfringe, venivano utilizzate per una pizza succolenta.

C’erano anche quelli che si deliziavano a fare rosolio, latte di mandorle, nocino e limoncino e frutta candita con le bucce spesse delle arance..

In questo periodo avveniva di tutto, specie nelle serate fredde, intorno ai fuochi scoppiettanti dei camini o intorno ad un braciere i nonni raccontavano favole natalizie, si giocava agli indovinelli, alla morra, all’asso pigliatutto, al gioco dell’oca, al ciuccio, al sette e mezzo, alla stoppa, alla tombola, a rubamazzette… Fra un gioco e l’altro s’intrecciavano canti pastorali, nenie e ninne nanne.

Se invece la serata era dolce, i ragazzi giocavamo fuori Alla mennola a trentuno, ai quattro cantoni, al gioco della campana,  a mazze e streppone, a guardia e ladri…   

Inoltre a rendere più gioiosa e febbrile l’attesa del Natale contribuiva l’immancabile suono delle ciaramelle e delle zampogne dei pastori abruzzesi, venuti a svernare con i loro greggi sul Tavoliere e sul Gargano. Il loro modo di vestire era un prepotente richiamo per i ragazzi: essi indossavano, infatti, un giubbone di pelle di pecora o di capra con tutto il loro pelame, bianco e marrone (u pudduccione), un paio di pantaloni di fustagno o di velluto, le cui estremità erano chiuse da gambaletti (tipo di uose), che si abbottonavano lateralmente o che entravano nei calzettoni di lana bianca, mentre ai piedi facevano bella mostra i zambitte, tipo di sandali di cuoio di animale con la punta rivolta verso l’alto, tenuti fermi da corde di peli di capra sul collo del piede, che, passando per la caviglia, si intrecciavano intorno ai polpacci, e si allacciavano al disotto del ginocchio. Un cappello a cono, sgualcito e stinto, copriva la testa, la camicia dal colletto aperto mostrava la maglia di lana fatta con i ferri, mentre il mantello nero (la cappa) scendeva sulle spalle. I ragazzi, più che apprezzare il giovane che suonava la ciaramella, s’incantavano a guardare l’anziano che con le gote gonfie soffiava nella cornamusa dotata di due o tre otri (pive).

Questi pastori, anche durante il periodo di guerra, venivano sempre a suonare le nenie natalizie nelle nostre strade, non tanto per raccogliere qualche soldino, quanto per augurare a tutti un Santo Natale.

Il periodo vero e proprio natalizio iniziava con la novena dell’Immacolata. Le chiese si riempivano di uomini e donne e risuonavano di canti popolari.

Il 13 dicembre, giorno di S. Lucia era particolare,: in quasi tutte le case si consumava un pranzo povero e molto frugale a base di fave scondite e con poco sale (fave gratte), cotte nella pignatta sul fuoco del camino. I devoti più radicali ne mangiavano solo 13 con una fettina di pane a ricordo del martirio subito dalla giovine Santa, che non volle rinunziare alla fede in Cristo.

In questo stesso giorno iniziava anche il computo cabalistico delle Calende. Specialmente i contadini si cimentavano a fare le previsioni del tempo per  l’anno che stava per arrivare: annotando sul calendario le variazioni del tempo. Il giorno 13 rappresentava il mese di gennaio, il 14 febbraio, il 15 marzo, il 16 aprile…, sino al 24 dicembre. Si saltava, poi, il giorno di Natale, e si riprendeva la cabala col 26 in senso inverso per fare la controprova. Infatti il 26 era dicembre, il 27 novembre, 28 ottobre… e contando così a ritroso  si arrivava all’Epifania che era gennaio. Se le caratteristiche del tempo collimavano nei rispettivi mesi, si traevano così le previsioni di tutto l’anno. Il giorno di Natale non veniva contato, perché era il giorno del Signore, ma da esso si ricavava l’auspicio dell’andamento generale dell’anno e se questo si presentava asciutto, secco, il pronostico era di un’ottima stagione agraria, Anche la filosofia spicciola dei proverbi lo confermava “Natale sicche, massare ricche” (Natale asciutto, agricoltore ricco).

A partire dal giorno dell’Immacolata in quasi tutte le case si allestiva il presepio, con le sue montagne di carta, con le vie fatte con la farina, con le case di cartone o di piccoli ritagli di legno, con il laghetto costituito da un pezzo di vetro o da uno specchio e con i prati coperti dal muschio. Non sempre i pupazzi erano di creta, molti erano confezionati in casa con la cera. Al centro vi era la grotta che accoglieva Giuseppe e Maria, proni davanti ad un cestello con la sola paglia e ai loro lati il bue e l’asinello inginocchiati, In tutto questo scenario non c’era lo scintillio delle lucette colorate, ma ad illuminare la scena vi era solamente il riverbero del fioco lumino di un lucignolo che ardeva nel piattino colmo di olio sempre acceso davanti alla grotta.

La sera, quando tutto era silenzio, le ombre dei pupazzi allungate, i monti e le valli dalle tante fessure oscure, create dalla soffusa luce, davano un senso di mistero, di attesa. E noi ragazzi ne eravamo affascinati e col pensiero immaginavamo i lunghi e faticosi viaggi che la gente intraprendeva per andare a Betlemme.

Tutto questo paesaggio era a sua volta racchiuso da una grande capanna confezionata con rami di ulivo o di pino, guarniti di arance, mandarini, limoni e corbezzoli.

Non si poteva usare la luce elettrica, perché non c’era il contatore, ma c’era il sistema del forfait. Significa che si poteva tenere accesa solo una lampadina da 50 watt o due da 25. Tenere accesa una terza lampadina, significava rimanere all’oscuro. Per evitare questo incidente, si accendeva la lucerna ad olio e ìl lume a petrolio

Negli ultimi giorni che precedevano il Natale le donne, in genere, oltre a seguire con devozione i riti natalizi, si dedicavano ai lavori domestici utilizzando anche le ore notturne. Impastavano la farina nella madia per fare il pane, che veniva portato al forno nelle prime luci dell’alba. Per accontentare i figli facevano con la massa un bambolotto, il cui corpo era guarnito da strisce di pasta intrecciate (Cristo in fasce). Fra un gioco e un canto si dilettavano a preparare caveciune, calzuncidde, carange, struffele, cicerate, mustacciule, castagnette, mànnole atterrate e ostia chiene... Nelle strade si spandeva l’acre odore dell’olio fritto e l’acuto profumo della cannella e dei chiodi di garofano che prendevano soavemente i sensi e stuzzicavano l’appetito. Erano vere leccornie!!…

In tutto questo periodo anche i sarti avevano un gran da fare con aghi, fili e forbici fino a notte fonda, dovevano prendere le misure ai committenti, tagliare la stoffa, imbastirla e cucire, provare e riprovare, onde essere precisi e puntuali nelle consegne, perché, come dice un vecchio proverbio, “Lu jurne di Natale, – ci mùtene li craunère – e pure le ferrare” (Il giorni di Natale, indossano vestiti nuovi anche i carbonai e i fabbri ferrai).

I macellai guarnivano gli stipiti degli ingressi dei loro negozi con sfilze di tacchini e di capretti, tutti infiocchettati con nastrini colorati, mentre gli ortolani, agli angoli delle strade, facevano a gare per vendere ogni sorta di verdura sia coltivata che selvatica.

I FESTEGGIAMENTI DEL NATALE

Nell’antivigilia di Natale si consumava un pranzo molto frugale e quasi sempre a base di verdura oppure fettuccine e ceci (làine e cice), con sugo di baccalà o di anguilla e capitone.  La sera, in molte vie si accendevano le fanoie che duravano fino a dopo la mezzanotte e, intorno ad esse, incuranti del freddo, uomini e donne, giovani e anziani, recitavano il rosario e intonavano le nenie:

La notte di Natale è notta santa, – nasce lu Bambine a la capanna.

Quante nascette Ninne a Bettlemme, – jeva notte e pareva mmizejurne.

(quando nacque il Bimbo a Betlemme, – era notte e sembrava mezzogiorno).

Nella bracia si lasciavano cuocere le patate, che venivano mangiate, dopo averci soffiato sopra per allontanare quel tanto di cenere, condite con un pizzico di sale e un filo d’olio.

Prima che il fuoco si consumasse, le donne portavano in casa un po’ di tizzoni ardenti e li depositavano nei bracieri o nei focolai come reliquia e benedizione del Santo Natale.

I giovani invece si divertivano a cantare:

La notte de Natale nun ce dorme, – ci pigghia la catarre e ci va sunanne.

(la notte di Natale non si dorme, si prende la chitarra e si va suonando)

Anche per il mezzogiorno successivo si preparava la minestra verde, con diverse specie di verdure, condite con un leggero sughetto di pomodoro, sedano e cipolla o il brodo di cardune (foglie delle piante dei carciofi) con cotica e capocollo di maiale, ricoperti entrambi da una buona mangiata di formaggio grattugiato. Era il cosiddetto digiuno di Natale, imposto da un’antica tradizione e ricordato col proverbio

Chi nun faj u disciune a Natale, o jè turche o jè ‘nnemale.

 (chi non fa il digiuno a Natale, o è turco o un animale).

La sera, però il menu era abbondante:insalata con alicette sott’olio, fettine di prosciutto, di salsicce e uova soda; spaghetti con baccalà al sugo di pomodoro; baccalà o capitone in umido o fritto; arance, mandarini, melecotogne, uva e sorbe; noccioline, noci, mandorle abbrustolite. il tutto innaffiato da vino novello e da moscato. Spiluccando fra pettole,, calzuncine e chelustre, si completava la serata con una chiassosa giocata a tombola.

Però al suono del campanone della Cattedrale grandi e piccoli si recavano in Chiesa ad assistere alla Messa di Mezzanotte e alla simbolica nascita di Gesù.

Al rientro anche nelle case avveniva la stessa cerimonia davanti al presepio. Al più piccolo era dato l’onore di portare in processione la statuina del Bambino per tutta la casa, seguito dal resto della famiglia, che in segno di allegria aveva in mano le fontanelle accese dalle mille scintille e intonava “Tu scendi dalle stelle” di S. Alfonso de’ Liguori.

Il giorno di Natale la mensa era bandita con fumanti piatti di orecchiette, di maccheroni, di “’ntrùcciule” con ragù, o di ravioli con ricotta dolce, mentre la cena, profumava di capretto o tacchino con patate a “racanate”, cotto con fuoco sopra e fuoco sotto. E in entrambi i momenti non mancavano sulla tavola quelle cannarutizije preparate dalle mamme.

L’indomani, giorno di S. Stefano si consumavano gli avanzi o pasti molto frugali a base di minestra verde o di semolino in brodo.

La festa finiva qui. L’indomani si ritornava alla vita normale, ai propri lavori, alle solite faccende. Le strade si spopolavano e, inappuntabilmente arrivava il freddo e, nei paesi all’interno del Gargano, anche la neve. A salutare questi giorni festivi, un po’ con rimpianto, ma più di tutto con facezia e molta ironia, maliziosamente si cantava

Tre tummule di ‘rane –  Ce vonne a Natale:

Une p’li pizze, e une p’lu pane – E l’aute accurdame le ruffiane

Prim’e Natale né fridde né fame, – dope Natale fridde e fame.

Prim’e Natale cu lu muse vunte, – dope Natale ci facile li cunte.

Bisognava aspettare la festa di S. Silvestro, ultimo giorno dell’anno, per vedere rianimare il paese. Le donne si affannavano negli acquisti per preparare, per la sera, il cenone e i dodici pasti in onore di ogni mese per l’indomani, giorno di Capodanno.

Si trascorreva la serata con balli, giochi di società e tombolate, ma allo scoccare della mezzanotte si usciva fuori, sui balconi e nella strada, per far scoppiare i botti, le tric-trac e le pisciavunnadde, ibotti che strisciavano per terra su un percorso incontrollabile emettendo un sibilo a base di sciiii e terminando con uno scoppio secco, o per sparare alcuni colpi col fucile. Si cacciava così l’Anno Vecchio e si accoglieva con allegria l’Anno Nuovo.

 C’era, però, in quest’occasione la brutta usanza di gettare in mezzo alla strada tutti gli oggetti inservibili, creando uno spettacolo poco edificante e disagio ai passanti.

Con l’Epifania si completava il lungo periodo religioso e subito si pensava a rimboccare le maniche per riprendere le normali attività e, con malinconia si sospirava:

 Tutte li feste, iessene e venessene,- Pasqua Bufania maje turnasse

Questo perché si era consapevoli che:

Dope la festa – sacca vacante – e delore de testa.

Però con nostalgia e, pensando al Carnevale, si diceva:

La Pasqua Bufania – tutte le feste porta via. –

 Arruspunnije Sant’Antonie – ce sta angora la festa mije.

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Matteo Siena