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LA FAVOLA

Il racconto ordinato dall’inizio della storia di Merino segue un filo logico e “storico”, laddove per storico intendo per lo più verosimile, secondo ragione, essendo molti i punti oscuri e le ipotesi. Il mio obiet­tivo, scrivendo questa storia, è di sottrarre Merino al mito e alla favola e inserirla nel tessuto della nostra storia.

Francesco Innangi ha intitolato un suo studio sui Merinates ex Gargano, apparso su Garnwes e da me diverse volte citato, così: “Merino: dal mito alla realtà”. Anch’io mi sono accinto a scrivere per sottrarre Merino alla fantasia e restituirla alla realtà.

Fin qui il mio impegno è stato quello di accostare i tasselli, sparsi qua e là, per ricostruire un quadro più possibile vicino al vero.

Nel presente capitolo ricostruirò la favola di Merino per liberarla. Entrerò nell’immaginario collettivo per scomporlo e riportarlo alla storia vera, pur riconoscendo al nome Merino una potenza evocativa unica per noi.

Il Giuliani raccoglie per primo il prodotto della fantasia costruito fino ai suoi tempi e ci consegna una Merino fantastica e per tanti versi fiabesca. Da lui poi dipendono gli scrittori successivi, rincarando la dose.

Egli, dopo aver presentato gli abitanti di Merino (il primo, come già detto, ad usare questo toponimo), dopo aver descritto ruderi a noi sconosciuti e segni di un’antica fortezza su di una collina, pre­senta i resti nel piano, così: “Nel piano dall’aratro ricoverte, si scuoprono rimasuglie di fabbriche grandi rovesciate, varie cisterne, diverse fosse, condotti, lamioni, e da per tutto calcinacci, rottami di pietre, e spezzati mattoni, che indicano essere stata ben grande Città. Si mira

ove un tempo s’alzar templi, e Teatri, or armenti muggir, strider aratri” (1).

Racconta quindi la grandezza di questa città parlando della Cat­tedrale, dei Vescovi, della Beatissima Vergine, che Vieste eredita da Merino e che ogni anno ivi viene condotta da tutta la popolazione, di Marino monaco eremita che a Merino riceve la palma del martirio, della sua distruzione ad opera dei pirati nel 914-915, del suo ricon­giungimento alla città di Vieste.

Teodoro Masanotti riprende il Giuliani, citandolo implicitamente, e incrementa la favola.

“E Merino in sollecita cura al tuo lato compagna sede, cui sovente il furor di Marte sospingea sull’Adria con te” (2).

Nella nota quattro dice: “Questa è la città dove abitavano i Merinati, che da Plinio vengono nei suoi libri registrati, della quale il sito è a quattro miglia distante dalla città di Vieste, dove si scuoprono rimasuglie di fabbriche grandi rovesciate, varie cisterne, diverse fosse, condotti, lamioni, e da per tutto calcinacci, rottami di pietre, e spezzati mattoni, che indicano essere stata ben grande città.

“Molti opinavano essere stata distrutta, ma il caso più dotto dei dotti ha fatto scoprire la verità. A cagione di trovare tesori, molti si condussero in quel territorio a scavare, e trovarono fino al terzo appartamento” (3).

Don Marco della Malva, dopo aver descritto i resti rinvenuti negli scavi degli anni ’54 e ’56, afferma: “Di alcuni rinvenimenti fu facile dire; di altri, non potendosi dire con precisione, si congetturò. Si concluse col dire che Merino dovette essere una grande e ricca città” (4), rifacendosi al Giuliani e al Masanotti. La favola continua. Conti­nua fino agli scavi e anche dopo.

Don Marco riporta uno scritto di Giovanni Medina, apparso su Il Faro di Vieste, gennaio 1955, appena dopo gli scavi del 1954, intitolato Merinum.

Egli riassume così lo scritto di G. Medina: dagli scavi risultava­no accertate l’edilizia romana di pregevole manifattura, la fognatura, la rete idrica di approvvigionamento urbano e portuale, capolavoro d’ingegneria; l’esistenza di lussuosi complessi edilizi sfoggianti marmi bianchi e colorati, del signinum e di mosaici e di pitture, di un complesso industriale e commerciale e dell’emporio; mentre erano incerti i bagni, la palestra e la locanda.

Sottolineò il tronco idrico della città – porto che “ci indica 1’esistenza di un approdo marittimo di elevata importanza: un porto che per essere dotato perfino d’acquedotto, doveva aver traffico, movimenti ed impianti di grande attività”.

Questo scritto rende noti i risultati della prima campagna di scavi. Quanto descritto dall’autore non rispecchia la verità degli scavi effettuati a Merino, che hanno messo in evidenza realtà molto più povere e semplici.

L’autore sembra avere avanti un’altra Merino, quella che esisteva nella fantasia sua e di tanti viestani, dotti e meno dotti, molto diversa da quella che, in effetti, è venuta alla luce, un’azienda agricola.

Anche il Ruberti a conclusione dei lavori di scavo pubblicò un articolo nel cui titolo appariva la parola “favolosa”. Favolosa non certo per quello che è emerso dagli scavi, una semplice villa rustica, favo­losa perché si è caricata di fantasia e di fiabesco nei secoli, anche se non si disdegna di considerare favolosa Merino per la sua storia umana, sociale e religiosa.

Nel 1954 si volle scavare ad ogni costo. Il tempo immediatamente prima l’inizio dei lavori fu frenetico da parte degli Amministratori locali, dell’ispettore onorario della Soprintendenza, ing. Diana Lorenzo, degli studiosi e dei curiosi. L’attesa era grande. Si attendevano tesori d’arte: architettura, pittura, scultura; tesori materiali: monete, monili, suppellettili e preziose ceramiche e via discorrendo.

La delusione dopo gli scavi fu enorme, inversamente proporzionata alle attese. Lo deduciamo da una laconica affermazione del della Malva e dall’amaro destino riservato ai ruderi successivamente agli scavi. Don Marco scrive: “A chiusura dei lavori si concluse che la zona dei ruderi presso la chiesetta costituiva la periferia di Merino e che l’abitato era alle spalle della chiesa stessa” (5).

Chiara ammissione di fallimento dell’impresa. Si è scavato in un luogo sbagliato e solo perché i risultati ottenuti non erano secondo le aspettative.

Il tesoro che Merino poteva dare è venuto fuori, solo che era d’altra natura e forse più interessante, perché apre, nella verità, alla storia di oggi. Anche fra mille problemi, interrogativi ed ipotesi, Me­rino appare oggi, a chi vuole conoscerla, affascinante. Merino ha dato quello che aveva da dare. La sua magia non è finita. E iniziata.

La delusione diventa cocente fino al punto da voler dimenticare e cancellare quanto faticosamente fatto emergere. Difatti Merino, da allora, è stata condannata al silenzio, all’incuria, al degrado più ignobile. Si sta distruggendo Merino una seconda volta con l’abbandono e la più cieca indifferenza.

Negli anni ’70 si è perpetrata la più grande ingiustizia nei con­fronti dei ruderi di Merino. Una stradina interpoderale asfaltata ha tagliato in due la zona archeologica interessata dagli scavi degli anni ’50. Personalmente ho visitato qualche villa romana, analoga a quella di Merino finalizzata ad altre produzioni; sono tenute come gioielli.

Gli Amministratori e le istituzioni di questi centri sono più bravi, più intelligenti, più aperti, più creativi dei nostri? Non credo. Si spera sempre che qualcuno entri nell’ottica della valorizzazione di Merino e la risusciti con la sua storia per renderla fruibile.

La campagna scavi degli anni 50 mirava a suscitare la Merino favolosa; la prossima a restituirci la Merino reale.

NOTE

  1. – V. Giuliani, op. cit., 52
  2. – T. Masanotti, Ode alla Patria
  3. – T. Masanotti, ibidem, nota 4
  4. – Don Marco della Malva, La Città e la Madonna di Merino, Foggia 1970, 26

– Don Marco della Malva, ibidem, 25

merino, il santuario, la festa

don giorgio trotta