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Cultura Consiglia LETTURE/ Chi può rompere la “malavoglia” del lunedì? lunedì 8 aprile 2013 Valeri

Ma il problema del lunedì viene prima del lunedì. Viene esattamente un giorno (o un giorno e mezzo) prima. Perché ogni lunedì (come tutti i tifosi di calcio sanno benissimo) si rende evidente quello che è stata la domenica, diciamo leopardianamente il «dì di festa». Ciò che un uomo è si vede da come usa il «dì di festa», ma il modo in cui viene usato il «dì di festa» si vede quando arriva il giorno normale; la domenica viene a galla il lunedì. Perché la domenica è etimologicamente il giorno del dominus, e ciascuno testimonia, semplicemente attraverso quello che fa, quale sia il suo dominus.

Per ’Ntoni la domenica è vuota: «si rompeva le mascelle a sbadigliare tutto quel giorno in cui non aveva nulla da fare, e non finiva più». Pur di non sbadigliare, la giornata si può anche riempire di (belle) cose da fare. Ma ogni ritorno da un fine settimana o da una pausa – pasquale, natalizia o estiva – non tarda a lasciar affiorare lo stesso dramma: quando si sente che manca un motivo, una spinta, la promessa di un gusto nella fatica, quando cioè la malavoglia ti inchioda alla mancanza (o meglio all’inadeguatezza) del tuo dio. La faccia del lunedì, prima di qualsiasi discorso, svela sempre quale sia stata la domenica, e dunque quale sia il dio di ciascuno: in quel momento diventa chiaro che non esistono atei, è solo che c’è chi si è scelto un dio impotente, traditore, che ti lascia nella malavoglia, e c’è chi si gode invece un dio che vale, che «’n suo voler ne ’nvoglia» (Paradiso III), che ti accende di una «voglia pronta» (Purgatorio XIII). A tutti, il lunedì, tocca il primo passo: il punto è se si parte da un pieno o da un vuoto.

È il dramma che si consuma in quel tunnel lungo tutto il quarto e il quinto anno di liceo che è l’obbligo delle feste dei diciott’anni: che mostrano quel che sono la mattina dopo, quando si crolla sui banchi come larve. «Ecco è fuggito / il dì festivo, ed al festivo il giorno / volgar succede, e se ne porta il tempo / ogni umano accidente»: con parole semplicissime Leopardi fotografa il polverizzarsi della sera prima. Tranne il sonno e il mal di testa, cosa rimane? Troppo bella per essere vera, troppo effimera per continuare. E tutto il tragico si condensa qui: nel desiderio nascosto che il sabato non finisca, che la festa irrompa nell’ordinario della giornata successiva. Mentre in genere, la mattina dopo, «quasi orma non lascia».

Il sonno domina, quelle mattine. «Su, mortali, destatevi. Il dì rinasce: torna la verità in su la terra, e partonsene le immagini vane. Sorgete; ripigliatevi la soma della vita; riducetevi dal mondo falso nel vero». Il risveglio del Gallo silvestre leopardiano rimette di fronte alla fredda evidenza: «a tutti il risvegliarsi è un danno. Il misero non è prima desto, che egli ritorna nelle mani dell’infelicità sua. Dolcissima cosa è quel sonno»