Demenze, un insieme di diverse malattie involutive, per lo più progressive, che colpiscono la memoria, altre capacità e comportamenti cognitivi e interferiscono, significativamente, con la capacità di una persona di mantenere efficienti le attività della vita quotidiana. Le donne sono più spesso colpite rispetto agli uomini. La malattia di Alzheimer è il tipo più comune di demenza e rappresenta il 60-70% dei casi (46,8 milioni di persone soffrono di una forma di demenza nel mondo, più della metà di loro è affetta da Alzheimer). L’Alzheimer, prototipo, ladra di cervelli, che ne ruba i primi pezzi nel silenzio dei sintomi mentre, inesorabilmente, procede senza che, almeno sinora, la ricerca clinica e scientifica abbiano approntato mezzi idonei al suo stop. «In Puglia – dice il prof. Paolo Livrea, emerito di neurologia università, Bari, all’incontro su “Nuovi criteri di diagnosi delle demenze” svoltosi a Ruvo di Puglia ed organizzato in occasione del secondo anno di attività di Villa Anita (Terlizzi), centro diurno per la stimolazione cognitiva nelle demenze, di concerto con Itelpharma – sono presenti 55-60mila persone affette da demenza cui se ne aggiungono, ogni anno, oltre 19mila. Ogni medico di famiglia, di concerto con gli specialisti, è chiamato a curare i bisogni sanitari complessi di circa 35-40 pazienti ed a formulare una nuova diagnosi di disturbo neurocognitivo maggiore o lieve per 15-20 pazienti per anno alla fine di un loro lungo e complesso percorso clinico. L’obiettivo – continua Livrea, che di Villa Anita è direttore scientifico – è stabilire linee guida di convergenza tra persona, famiglia e medico di medicina generale prima e dopo l’ospedalizzazione nella speranza di organizzare un Registro che censisca i malati e relative peculiarità ed iter. Va anche coordinato il ricorso ad alte tecniche di indagine come la Risonanza Magnetica (almeno l,5 Tesla con taglio coronale e procedura standardizzata) e la PET per la proteina amiloide (in Puglia è utilizzata) per l’accertamento diagnostico ma anche per escludere, con maggiore accuratezza, il morbo stesso. L’accumulo delle proteine nel cervello non è automaticamente sinonimo di malattia».
«Ma – specifica il prof. Marco Trabucchi, presidente ass. naz. Psicogeriatria – fatta la diagnosi (avviene solo nel 45% dei casi), bisognerà garantire “il dopo” per il malato e sua famiglia. Chi li segue e come, chi presta attenzione ad una buona comunicazione, alle paure preventive, al’inserimento nella filiera giusta? Più attente, spesso, alcune realtà private. A Brescia, nonostante la raccomandazione di intervenire sulle persone a rischio, vi si sono attenuti appena 11% degli obbligati. Il 20-30% dei malati non afferisce ai servizi perché nascosti dalle famiglie che se ne vergognano». Il prof. Livrea, che ha fatto un excursus dell’evolversi nel tempo delle possibilità di indagine, dei test di laboratorio e di immagini per giungere a diagnosi (quella autoptica conferma il sospetto, a volte nemmeno questo, di Alzheimer), delle classificazioni, valutazioni, criteri clinici, stadiazioni delle malattie, ha auspicato, tra l’altro, che siano fissate linee univoche, che superino i confini regionali, dell’intervento diagnostico e clinico in questo insieme che il prof. Bruno Tartaglione (università, Bari) ha definito «arcipelago». Le peculiarità del dibattito, dei dati clinici e di laboratorio forniscono punti-luce che – ha detto la prof. Maria Trojano, direttore neurologia universitaria, policlinico, Bari che ha moderato la prima sessione dell’incontro – potranno servire a creare un’utile interfaccia con il medico di medicina generale, punto nevralgico per la gestione del paziente prima e dopo il ricovero ospedaliero. Dal 2014 c’è un «Piano italiano per le demenze», firmato dalla ministro Lorenzin, ma non è mai stato finanziato.
Nicola Simonetti
gazzettamezzogiorno