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Vieste/ Psicomachia o lotta per la sanità del servo di Dio don Antonio Spalatro

La vita santa del Servo di Dio don Antonio Spalatro si rive­la di grande attualità alla lu­ce dell’esortazione apostoli­ca “Gaudete et exultate”.

Don Antonio ha incarnato nel suo tempo, non tanto lontano da noi, ep­pure molto diverso, un profilo alto di quella santità che sempre splen­de sul volto della Chiesa in tutti i tempi. Egli si è posto decisamente in una prospettiva di santità stori­camente incarnata e testimoniata attraverso virtù vissute in pienezza nella quotidianità. Sosteneva infatti che i “ I Santi progrediscono nel mon­do, quando si mettono nel piano di corrispondenza” e aggiunge “ Ricor­da che la parte dell’azione umana in ogni piano divino, anche subordina­ta, è sempre necessaria” (diario di d. Antonio 24- 09-1950)

Il Concilio Vat. II aveva evidenziato l’urgenza della chiamata di tutti alla santità “ognuno per la sua via e sen­za scoraggiarsi”, ora l’insegnamento è ribadito dalla esortazione apostoli­ca del 19 marzo 2018 in cui si affer­ma che “ Tutti sono chiamati ad esse­re santi vivendo con amore e offren­do ciascuno la propria testimonian­za nella occupazione di ogni giorno” (n. 14).

Il Servo di Dio pur ponendosi di fron­te a modelli inimitabili di santità ha scelto, non senza una particolare grazia, la via che gli era più connatu­rale, quella della semplicità del bam­bino per vivere “la santità ordinaria attraverso piccoli gesti, costruendo relazioni di fraternità e comunione, suscitando segni della presenza del­lo Spirito anche in ambiti diffidenti”. (Op. cit. n.16).

Il mondo operaio di quel tempo era indifferente e storicamente lonta­no dalla vita della Chiesa; a questo mondo con la sua vita e dedizione lascia una scia luminosa di amore e di testimonianza come riflesso del­la presenza di Dio. Se pure ha conosciuto ed è stato con­tagiato da numerosi Santi che offri­vano diverse forme esistenziali di vi­ta, tuttavia raggiunge la convinzio­ne che la grazia si comunica a cia­scuno in modo proprio ed in certo senso irripetibile nel cammino di santità.

Nella spiritualità del bam­bino del regno ha consapevolezza che “ sono soprattutto i piccoli gesti che fanno crescere nella santità co­me quelli di non dire male degli al­tri, ascoltare con pazienza, fermar­si a parlare con i poveri.” ( ib. n.16) Per tal motivo è stato voluto bene, sti­mato e apprezzato attirando perso­ne di ogni genere e di ogni età che istintivamente hanno riconosciuto in lui l’uomo vero, il cristiano genu­ino, il sacerdote zelante. Riandando al suo modo di porgersi con se stes­so e con la gente dobbiamo ammira­re la sobrietà, la mitezza, l’educazio­ne, la gentilezza d’animo e il rispet­to dell’altro.

Egli è diventato bambi­no con i bambini, giovane con i giovani, malato con i malati, portando gioia, luce e speranza nelle famiglie specie quelle più povere e diseredate. Cosi possiamo affermare che nell’in­sieme, l’insieme la vita di d. Antonio è stato un cammino di santificazione ed in lui nella totalità della sua perso­na si è riflesso Gesù Cristo. (Ib. n. 22) Tutto questo non è solo frutto di quali­tà umane ma anche conquista mutua­ta dalla preghiera, dall’ascolto della Parola di Dio meditata, contemplata e vissuta nella ubbidienza fedele ed incondizionata alla Chiesa, al Papa e al vescovo.

Nel suo ministero ha av­vertito la continua chiamata di Dio a cui ha risposto con sentimenti di rin­graziamento nella celebrazione euca­ristica, nella paziente abnegazione di se, nell’attenzione ad ogni gesto e pa­rola accompagnata da uno sguardo limpido che infondeva serenità ed evi­tava dispiaceri. Perciò le relazioni in­terpersonali erano positive e cordiali sempre dirette a promuovere fiducia nell’intento di costruire in parrocchia una comunità evangelica dedita alla carità verso i bisognosi. Dopo tanti anni da quando don Antonio è vissu­to tra noi, in un contesto molto diver­so dal nostro, sorge una domanda: “Il Servo di Dio può dare un messaggio valido per i nostri giorni?’’ Conside­rando l’impronta di radicalità da cui era animato per cambiare se stesso alla luce del Vangelo, la risposta non può essere che positiva. Convinto del primato dell’interiorità e della grazia divina si rende conto che può trasformare se stesso e rendere la società più umana solo se si scon­figge la tendenza di un cristianesimo accomodante. Perciò c’è in lui l’ansia di vivere un vangelo esigente e lotta per navigare contro corrente.

Don An­tonio ha già vissuto quello che sugge­risce l’esortazione apostolica di Pa­pa Francesco: “I Santi sorprendono, spiazzano perché la loro vita ci chia­ma ad uscire dalla mediocrità tran­quilla ed anestetizzante” (n.138) ed ancora “Il Santo è una persona dallo Spirito orante che ha bisogno di co­municare con Dio in una sua abitua­le apertura alla trascendenza che si esprime nella preghiera e nel, adorazione”. ( n. 147) Alla nostra società del benessere, sempre in cerca di sensazioni effime­re, continuamente bruciate dal tem­po con amarezza e disorientamento, il Servo di Dio indica una strada d’in­quietudine che non lascia l’uomo e il cristiano tranquillo e a posto in co­scienza. L’inquietudine è il sale del­la fede che può a volte generare tri­stezza ma siamo ammaestrati da S. Paolo che “La tristezza secondo Dio produce un pentimento irrevocabile che porta alla salvezza, mentre la tri­stezza del mondo produce la morte”(2 Cor. 7,10.) Quel Gesù che don Antonio sperimen­ta con fede nel mistico incontro del sa­crificio eucaristico o nella preghiera silenziosa davanti al tabernacolo, lo vede pure mentre cammina e lo incon­tra nelle difficoltà della gente.

Le do­mande spesso urtanti e le situazioni disumane in cui vivono alcuni lo spin­gono a superare l’immobilismo di una fede superficiale e una pratica religio­sa priva di mordente. Con Gesù egli vive l’inquietudine e la vive intensamente fino alla fine con una vita che contagia chi gli è vicino e tutti quelli che incontra. Anche a noi oggi suggerisce una via al cristianesimo come paradosso e non di convenienza, n questa prospettiva scaturiva in ui l’esigenza di un combattimento Interiore alla ricerca di un continuo discernimento di strumenti poten­ti contro le insidie del Maligno che egli chiama “moloch”o mostro di una grandezza e di una bruttezza mai vi­sta. Anche l’esortazione apostolica in­vita a considerarlo non un mito, un simbolo, una figura o una idea ma realtà a cui bisogna contrapporre “lo sviluppo del bene, la maturazione spi­rituale e la crescita nell’amare”(ibid. 161-163).

“Ogni mattina una nuova battaglia” ( diario 6-11.1947) e in seguito ag­giungerà che è necessario “Una sola parola: Fedeltà fino a far sanguinare mani e piedi sulla roccia del monte! Non mollare. E’ l’astuzia del diavolo lo scoraggiamento, la sfiducia. Rico­minciare istante per istante, “(diario 6- 07-1948)

Questa convinzione lo porta ad intra­prendere quella lotta o psicomachia, unica battaglia consentita al cristia­no, per vincere la corruzione spiritua­le su “una cecità comoda e autosuffi­ciente dove alla fine tutto sembra leci­to: l’inganno, la calunnia, l’egoismo e tante sottili forme di autoreferenzialità”. (Ibid. 163)

Per sapere cosa viene dallo spirito o dal diavolo è necessario il discernimento, non solo nei momenti straordinari, ma anche nelle cose semplici, quotidiane e nella scelta di strumenti di lotta per seguire meglio il Signore, (ibid. nn. 166-175).

Don Antonio esercitava su se stesso una continua introspezione che lo portava a soffermarsi su alcune sue fragilità da lui accusate come mancanze ma considerate dal suo direttore spirituale, come turbe giovanili alimentate dalla malferma salute. In un continuo dialogo epistolare col padre spirituale, individua il lato debole del suo carattere in una punta di orgoglio nell’imperfetta umiltà che, a suo dire, lo rendevano vanitoso, impulsivo impaziente.

Per superare queste fragilità si impegna in un combattimento con un continuo, aspro e duro lavoro interiore fino all’uso di mortificazioni e penitenze, anche fisiche, alfine di acquistare il dominio di se per non annacquare la forza dirompente del Vangelo. (158-177). In questa lotta nascono ansie, apprensioni e angosce autodenunciate al padre spirituale che le considera, più che altro, sensazioni dovute alla sua elevata sensibilità. Gioca molto in queste sensazioni anche l’incertezza di una destinazione sicura del suo campo apostolico come pure l’incomprensione di qualche sacerdote o la fiacca risposta di alcuni fedeli alla sua azione evangelizzatrice. Questi momenti di scoramento che lo rendono triste ed abbacchiato sono oggetto di rimprovero del suo direttore che lo scuote per la poca indulgenza verso se stesso e con l’intento di fargli superare lamentele, insofferenze e marginali brontolii ritenuti dal Servo di Dio manifestazioni di orgoglio.

Le imperfezioni denunciate e duramente combattute trovano in lui una risposta nell’accettazione della grande legge della fecondità aposto­lica che gli fa accogliere come grazia la sua inquietudine e la trasforma in dono di amore nella carità operosa e nel sacrificio eucaristico celebrato quotidianamente unito alla sofferen­za di Cristo. Sarà un continuo richia­mo nella sua vita quello che ha scrit­to il 15 agosto 1949, giorno della sua ordinazione sacerdotale: “Fate che la mia immolazione sia effettiva, sia vera; fate Gesù, che soffra, che ogni gioia della terra mi diventi amara. ” Anticipa in tal modo una delle condi­zioni richieste nel n. 5 nell’esortazio­ne apostolica dove il sacrificio della propria vita per gli altri venga preso in considerazione come segno di eroi­cità nell’esercizio delle virtù.

Tra i doni dello Spirito Santo vi è l’in­trospezione dei cuori. Non so se il Ser­vo di Dio avesse tale dono nei confron­ti degli altri anche se qualcuno par­la del suo spirito profetico; è più cer­to che è stato guida illuminata nelle confessioni da cui i penitenti usciva­no pieni di indicibile gioia. Certamente l’introspezione l’aveva su se stesso ed è stata tale che gli ha per­messo di scandagliare la sua anima fino a percepire alla luce dello Spirito le piccole zone d’ombra che lo impo­verivano e gli impedivano di progre­dire nel cammino di perfezione.

Don Antonio entra nel suo profondo e con­sapevole che nessuno può essere au­todidatta e avventurarsi da solo nel­la via dello Spirito, si lascia guidare per mano dal suo direttore spirituale a cui sottopone se stesso in un conti­nuo esercizio ascetico con la docilità e semplicità di un bambino per un si­curo cammino. Candidamente confes­serà nel suo diario: ” Non mi so giu­dicare: farlo è una cosa difficilissima per me”. (Diario 14-02-1953)

La sua ansia e la sua inquietudine, come la spina che trafigge san Paolo, mostra l’umanità di don Antonio e la comprendiamo meglio alla luce della “Gaudete et exultate” quando affer­ma che “I santi non sono stati esenti da errori o da cadute; hanno le loro fragilità umane che contemplazione ed azione non escludono.”

Si può affermare che le cinque ma­nifestazioni dell’amore di Dio e del prossimo enumerate nella esortazio­ne apostolica hanno piena rispondenza nella vita di don Antonio. Chi si lascia contagiare dalla sua vita trova certamente nel suo impegno di pre­ghiera, pazienza, audacia, impegno di comunità ed umorismo, motivo di emulazione. Queste realtà sono con­tornate sempre da una lotta per su­perare le tentazioni e gioire nelle con­quiste della grazia in lui e nella comu­nità (ibid. nn. 110-157).

Don Antonio con l’aiuto della grazia ha superato se stesso e si è speso bene combattendo il male con il bene. Ave­va capito che nella società in cui vi­veva c’era bisogno di annuncio evan­gelico testimoniato in prima persona e in stretta comunione con la Chiesa per il bene delle anime.

La malattia e la sofferenza hanno su­blimato la sua testimonianza; si è ab­bandonato fiducioso alla volontà di Dio ed ha attinto nella fede la risorsa per essere generoso e ubbidiente po­nendosi così “quale esempio di virtù, di vita e di santità cristiana per tutti i fedeli”. L’offerta poi della sua vita per gli altri nel giorno della sua ordina­zione sacerdotale con l’accettazione della sofferenza fino alla morte rive­la la sua imitazione esemplare di Cri­sto degno di ammirazione dei fedeli. (Gaudete et exsultate n.5)

Georges Bernanos nel suo romanzo “Il diario di un curato di campagna”, fa trasparire un messaggio di grande attualità per i nostri giorni: combat­tere un cristianesimo accomodante e un vangelo privo di mordente. L’aspra lotta che don Antonio affronta è un in­vito per tutti noi a non addormentar­ci ed essere svegli per vivere con au­tenticità la vita cristiana. Anche alla luce dell’esortazione apostolica “Gau­dete et exsultate”possiamo capire in questo senso come sia più significati­va ed attuale la figura di don Antonio. Voglio concludere riproponendo un passo del romanzo citato anche da una teologa protestante Marion Muller- Colord.

“ Il buon Dio non ha scritto che dobbiamo essere il miele della ter­ra….ma il sale. Ora, il nostro povero mondo somiglia al vecchio pa­dre Giobbe, pieno di piaghe e ulcere, sul letamaio. Il sale, sulla carne vi­va, brucia. Ma la impedisce anche, di putrefarsi” (L’Inquietudine ed. S. Paolo).

don Pasquale Vescera

delegato episcopale

del tribunale diocesano