La partecipazione dell’Italia alla prima Guerra Mondiale, che fu detta la “Grande Guerra”, ma da alcuni anche la “guerra inumana”, che culminò col solenne trionfo di Vittorio Veneto, ebbe il primo inizio non come solitamente si crede sulle Alpi, ma nelle acque adriatiche della Capitanata, nel Golfo di Manfredonia.
Era l’alba del 24 maggio 1915!
Alba greve la prima di guerra sull’Adriatico: cielo coperto, aria leggermente fosca, ogni tanto un piovasco e calma completa di mare e di vento. I due caccia italiani Turbine e Aquilone, usciti da Brindisi, erano a mezzanotte, all’apertura delle ostilità con Austria-Ungheria, prossimi al Gargano quando avvistarono nelle acque del Golfo di Manfredonia, nell’ombra, poco di prora a dritta, una massa scura, che pareva quella d’una silurante.
Nel dubbio se fosse nostra o nemica, gli uomini corsero al posto di combattimento. 11 comandante del Turbine, accostando di traverso a manca, domandò, col megafono, al collega dell’Aquilone, di lui più anziano in grado, se ritenesse di dover aprire il fuoco contro la nave sospetta. Questi rispose: “Accerchiamola per riconoscerla e, se sarà nemica, l’attaccheremo”.
Avanzarono, A un tratto la luna, prossima al tramonto, uscita per un momento dalle nubi, illuminò in pieno uno dei nostri caccia, cosicché si convinsero che l’altra unità, se fosse stata nemica, li avrebbe riconosciuti e attaccati. Tuttavia, il primo sparò un fuoco “Very” rosso, come segnale di riconoscimento. Nessuna risposta.
Oò secondo aumentò al massimo la velocità e, per uscire a ogni costo dal dubbio, accese un rapido lampo del proiettore. La nave illuminata parve nemica e sembrò anche che ve ne fosse un’altra a poppa.
Il Turbine chiamò l’Aquilone: “Vi seguiamo, pronti a tutto”.
Le unità sospette non si vedevano nettamente nella notte buia. Il Turbine, che le aveva quasi raggiunte, defilando di traverso, pronto ad attaccarle, fece segnalare col fanale a trappola, in tutte lettere: “Chi siete?”
Nemmeno questa volta ebbe risposta. Rimase il dubbio.
Intanto, mentre le perdeva di vista, riceveva un segnale radio dall’altro caccia, che gli dava Barletta come punto di riunione.
Nei paraggi di Barletta, il Turbine avvistò un esploratore prossimo alla città, che subito individuò per lo Helgoland e lo vide sparare una bordata verso terra. “Allora, – scrisse il comandante Cap. di Corvetta Luigi Bianchi nel rapporto presentato al ritorno dalla prigionia – non pensando all’ordine ricevuto di evitare d’impegnarmi contro forze superiori, ma cedendo solo all’impulso dell’indignazione provocata nell’animo mio dal vedere bombardata una nostra città indifesa, ordinai alle macchine di mettere a tutta forza e mi diressi contro l’esploratore nemico”.
Questo cessò il fuoco e puntò decisamente verso la nostra silurante, che, considerata assai dubbia la riuscita di un lancio di controbordo eseguito con velocità relativa di oltre 60 miglia, per non essere stretta dall’avversario sotto la costa prese caccia e radio telegrafò: “Esploratore nemico che bombardò Barletta m’insegue; lo tengo in vista cercando di portarlo in linea nostri esploratori”. Ma, nonostante le insistenti e ripetute chiamate, non riuscì a entrare in comunicazione con alcuna nostra stazione radio.
Il nostro caccia era già nei paraggi del Gargano, quando, sempre inseguito dallo Helgoland, scorse poco a proravia del suo traverso a sinistra due fumi e presto due scafi che gli venivano incontro ad alta velocità.
Li riconobbe nemici: due caccia del tipo “Tatra”, quindi assai più veloci. Vide allora la sua posizione disperata. Ormai si trovava nella necessità di dover accettare un combattimento contro forze tanto superiori e tuttavia l’accettò decisamente, fidando nell’arrivo dei nostri che riteneva sicuro, se non per le chiamate radiotelegrafiche, almeno per il rombo del cannone che non poteva tardare a farsi sentire, tanto più che riteneva d’avvicinarsi velocemente alle loro posizioni.
Fu aperto il fuoco. Una delle unità nemiche sopraggiunte, il Csepel, sparò tutta la bordata di dritta sul Turbine, che immediatamente rispose col pezzo di poppa e con quello di centro a manca, non potendo, per deficienza del campo di tiro, far fuoco col pezzo del ponte di comando. Pure l’altra unità, il Tatra, incominciò a sparare, come anche lo Helgoland, che era a poco più di 6.000 metri. Due soli pezzi nostri da 76, contro sei da 66 e dieci da 110!
“La lotta era ben impari – scrisse il Comandante Bianchi. ma né io né il mio equipaggio disperavamo di poterne uscire con onore e anche con fortuna; anzi ci sosteneva viva la speranza di invertire le sorti della lotta”.
Purtroppo non fu così.
Lo Helgoland sparava male. Invece i colpi dei due caccia eremo abbastanza centrati, specialmente quelli del Csepel che piovevano a poca distanza a proravia del Turbine, mentre quelli dell’altro cadevano sempre a poppa.
Il Turbine tirava benissimo, “Un proiettile colpì l’albero di maestra – disse il rapporto del Csepel – ed esplose recidendo le drizze del padiglione di sinistra e la sagola della bandiera. Il padiglione cadde in coperta, la bandiera oltre bordo, però potè essere ricuperata in tempo. Le schegge traforarono il boccaporto d’accesso ai locali degli ufficiali… ; il ponte fu traforato sopra l’alloggio del Comandante … ; tre buchi si osservarono anche in coperta a poppa estrema”
Il nostro caccia avanzava alla maggiore velocità consentitagli, a pià di 30 miglia, ancora illeso, in mezzo alle granate che scoppiavano in mare, vicine o anche-vicinissime, e riusciva con costanti leggere accostate a dritta, non subito percepibili dal nemico, a schivare come meglio poteva i colpi. Intanto “a bordo tutto continuava a procedere regolarmente, – disse il rapporto del Comandante Bianchi – il personale disimpegnava il proprio servizio come se si trattasse di una esercitazione in gara con altre unità …”
Un piovasco e raffiche violente di vento resero per un poco difficile la direzione del tiro a tutto.. Dopo oltre mezz’ora il combattimento risultava del tutto indeciso. Ma a bordo del Turbine già v’era qualche ferito. Tuttavia, scrisse il Bianchi, “l’equipaggio lavorava serenamente, nonostante la pioggia di granate nemiche che sempre era incessante e intensa”.
Un marinaio, tale Molino, ferito gravemente per aver avuto asportato l’avambraccio destro da una scheggia, non ebbe un lamento e, dopo una sommaria medicazione, rimase tranquillo a osservare il combattimento senza scomporsi alla caduta delle granate, nutritissime intorno al suo bordo.
Vi fu una breve sosta e il Turbine ebbe la sensazione di essere sfuggito al nemico e prossimo a essere soccorso, poiché aveva visto all’orizzonte un fumo, ritenuto di nave italiana.
Diresse verso quel fumo, a forza.
Era invece ancora un’altra silurante nemica, che subito si mise in rotta di caccia e aprì il fuoco appena le fu possibile, centrandolo quasi subito, tanto da mettere un colpo in pieno nella caldaia di poppa del Turbine, poi un altro nella caldaia di prora, provocando una violentissima esplosione, che raggiunse la plancia e sollevò e sbattè sul ponte il Comandante, lasciandolo per un momento intontito.
Quando egli si rialzò, s’accorse dolorosamente che la sua nave aveva le macchine ferme e che avanzava ancora soltanto per abbrivo; vide i due pezzi presso le caldaie avariati nei congegni di mira; vide in coperta due marinai che si dibattevano sul ponte feriti e orribilmente ustionati; vide morti, feriti e rovina dappertutto; vide i superstiti sereni come sempre ai loro posti, pronti a eseguire i suoi ordini.
Comandò allora d’aprire tutte le prese d’acqua per affondare il suo caccia, di regolare i siluri e di predisporre i tubi di lancio a poppavia del traberso a dritta e a manca, nella speranza di poter eseguire un lancio contro qualcuno dei tre caccia nemici, mentre il pezzo di prora, l’unico ancora servibile, continuava a sparare.
Ma fu impossibile brandeggiare i tubi di lancio perché, per l’esplosione delle granate e per quella delle caldaie, il ponte s’era deformato e le circolari dei tubi eremo incastrate nella posizione in cui erano state messe la sera precedente , in caccia.
Nient’altro da fare! Anche il pezzo di poppa era diventato nel frattempo inservibile.
Il nemico continuò il fuoco ancora per qualche istante, avvicinandosi sempre più a piccolo moto.
“Per risparmiare un macello, ormai inutile, di gente – scrisse il Bianchi – ordinai all’equipaggio di cacciarsi in mare, e con orgoglio posso dire che non pochi volevano rimanere a bordo e che dovetti loro imporre di abbandonare la nave. Ordinai al capo timoniere di ammainare il battello, di imbarcarvi i feriti gravi e di portarli su uno dei caccia nemici . . . Il comandante in seconda, tenente di vascello Ferrari, voleva restare con me, e solo quando gli promisi che lo avrei subito seguito in acqua si decise a ottemperare al mio ordine . . . Rimasto solo a bordo cominciai a visitare i locali interni… “
Il Turbine era sensibilmente sbandato sulla sinistra. L’acqua scorreva dappertutto.
Il Comandante scese dove potè: acqua e cadaveri, rovina e desolazione. Risalì in coperta e si diresse al ponte di comando. “Sorvegliavo – scrisse – che gli Austriaci non mettessero in mare nessuna imbarcazione, perché desideravo non salissero a bordo, mentre ero ben deciso a impedirlo; e allo scopo mi ero munito di un martello che avevo trovato in coperta col quale all’occorrenza avrei fatto saltare la testa di un siluro … “
Ma il comandante del Tatra col megafono gli gridò di buttarsi in mare, perché avrebbe riaperto subito il fuoco per affondare la nave, e disse questo con agitazione e premura.
Due fumi apparivano infatti all’orizzonte. Nostri!
Ma troppo tardi.
“Poiché le unità arrivate – si legge nel rapporto dello Helgoland – avevano l’intenzione di sbarrarci il passo verso nord, era il esso di non perdere più tempo e si abbandonò quindi il Turbine con una forte inclinazione a sinistra tutto traforato e ardente”.
Un nostro marinaio, il fuochista Giuseppe Camminita, morente sul Tatra, con la pelle a lembi, ridotto irriconoscibile cosa rossastra dalle ustioni gravissime del vapore, al Comandante Bianchi, che, ferito anch’egli alla testa, affettuosamente s’interessava di lui nella breve traversata verso la prigionia in terra nemica, ancora con un filo di voce diceva: “Sento di morire … ma non me ne dispiace … Muoio per il mio Paese, avendo fatto il mio dovere. E’ contento, Comandante, del modo come ha camminato il Turbine?”.
Due lapidi ricordarono, a Manfredonia, questo tristissimo evento e il bombardamento navale subito prima del ritirarsi della flotta austro-ungarica.
La prima diceva: IN QUESTO GOLFO LEGGENDARIO
ALL’ALBA DEL XXIV MAGGIO MCMXV/MENTRE LA NAVE “TURBINE”
EROICAMENTE SI SOMMERGEVA
MANFREDONIA
PRIMA DI TUTTE KE CITTA’ ADRIATICHE
SPERIMENTO’ IMPAVIDA
LA RABBIA AUSTRIACA
ED ESALTO’
IL FULGIDO VALORE ITALIANO.
Recitava la seconda:
IL PRIMO GIORNO DELLA GUERRA NAZIONALE
L’ODIO AUSTRIACO
CON CENTO COLPI TIRATI DAL MARE
FRANSE QUESTO EDIFICIO
NON L’ANIMO DEI CITTADINI
FIDENTI NELLA VITTORIA.
Si riferiva questa lapide allo scalo ferroviario di Manfredonia campagna.
Non era il primo di tragici episodi della storia della città dauna, ma non ne infranse lo spirito.
Emilio Benvenuto