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QUANDO LO STIPENDIO ALLE CASALINGHE?

Un “lavoro” incessante, faticoso, silenzioso, non retribuito e scarsamente riconosciuto, quello della donna di casaSiamo di nuovo in campagna elettorale. I partiti illustrano rispettivamente le loro «ricette» economiche e sociali. Parlano di tutto. Di lavoro, impresa, disoccupazione e pensioni. Ma non delle casalinghe.
E’ vero. Quello della casalinga non è un lavoro. E’ molto di più. E’ una fatica, un’enorme fatica, la prima fatica che vediamo nella vita, che ci accompagna nella crescita e che raramente misuriamo.
La fatica interminabile delle donne di casa, delle mamme e delle mogli, è una fatica silenziosa, piena zeppa di rinunce e di sacrifici, senza scioperi e senza ferie, che non lascia tracce, che ricomincia ogni giorno, dal mattino fino a tarda sera.
Tutte le mattine, le casalinghe rendono ordinata la vita degli altri. Ma della loro fatica resta niente. A spazzarla via, ci pensano gli altri.
Noi facciamo le vacanze. Esse non riposano neppure il giorno di Natale, di Capodanno, di Pasqua e di Ferragosto.
La donna «in carriera», quella che lavora, è ammirata, riverita e socialmente apprezzata. La casalinga, invece, è vista come una donna che fa niente da mane a sera.
«Io lavoro, non faccio la casalinga», dicono, con una punta di superiorità, alcune donne che a casa stanno poco.
«Lei lavora», esclamano i mariti delle casalinghe, quando indicano (non senza ammirazione) una donna che sta tutto il giorno fuori.
Hanno ragione entrambi. La casalinga «a tempo pieno» non lavora. Fa molto di più. «Fatica». E anche duramente. Tutti i giorni e senza diritti.
La donna di casa dà tanto, senza ricevere nulla in cambio. Conosce la precarietà della sua fatica, che poco basta a cancellarla.
In passato, si è parlato dell’opportunità di riconoscere un «assegno mensile» alle donne che decidono di occuparsi «a tempo pieno» dei figli e della conduzione della famiglia. In una proposta di legge del 1995, si è arrivati a quantificarlo in «500 mila lire mensili». L’idea – intesa ad incentivare il «ruolo domestico» delle donne – non ha, però, avuto seguito.
Sul tema, i giudici hanno indubbiamente dimostrato una maggiore sensibilità dei nostri politici. Tredici anni fa, la Corte Costituzionale (nella sentenza n. 28 del 1995) ha, infatti, evidenziato che l’attività delle casalinghe è da considerarsi «attività lavorativa». Affermazione basata sul riconoscimento che il lavoro svolto nella famiglia ha un elevato «valore sociale ed economico» e ben può essere ricompreso nella norma costituzionale (art. 35 Cost.) che tutela il lavoro «in tutte le sue forme ed applicazioni».
«Si tratta – sentenziò la Corte Costituzionale – di una specie di attività lavorativa che è già stata oggetto di svariati riconoscimenti per il suo rilievo sociale ed anche economico, anche per via degli indiscutibili vantaggi che ne trae l’intera collettività e, nel contempo, degli oneri e delle responsabilità che ne discendono e gravano – ancora oggi – quasi esclusivamente sulle donne (anche per estesi fenomeni di disoccupazione)».
La Consulta ha poi ricordato che il «valore del lavoro familiare» è stato anche alla base della risoluzione del Parlamento europeo 13 gennaio 1986 e della pronunzia n. 78 del 1993 della stessa Corte Costituzionale (con la quale è stato affermato il diritto alla rivalutazione dei contributi versati per la previdenza a favore delle casalinghe). Non senza rilevare che l’art. 230-bis del codice civile – apportando una specifica garanzia al familiare che, lavorando nell’ambito della famiglia o nell’impresa familiare, presta in modo continuativo la sua attività – mostra di considerare, in linea di principio, il lavoro prestato nella famiglia alla stessa stregua del lavoro prestato nell’impresa.
Se lo Stato italiano dovesse pagare per intero i molteplici «servizi» che quotidianamente offrono le casalinghe, l’esborso sarebbe vicino a più di un terzo del prodotto interno lordo.
Nel 2005, il sito web americano Salary.com ha condotto uno studio informale sul «lavoro» delle casalinghe. Ha domandato ad un campione di 5 milioni e mezzo di casalinghe di dare un’etichetta alla loro attività giornaliera. Le intervistate – riferiva Antonella De Gregorio in un suo pezzo pubblicato sul «Corriere della Sera» – si sono definite insegnanti, educatrici, amministratrici delegate, donne delle pulizie, cuoche, autiste ed infermiere. Sette giorni la settimana, senza vedersi riconosciute ferie o malattie. Il Salary.com ha, quindi, calcolato l’ipotetica paga annuale (comprensiva degli straordinari) per il lavoro proteiforme svolto da una casalinga in una famiglia con almeno due bambini in età scolare. Nella nostra valuta, all’attualità, ammonterebbe a circa 90 mila euro, considerata una media di 100 ore la settimana. «Riteniamo che questa stima sia molto importante, perché richiama l’attenzione sul fatto che essere una madre casalinga non è una scappatoia, non è un modo per le donne di non lavorare e non è un lavoro senza valore», ha dichiarato Bill Coleman, vice-presidente di Salary.com.  
Certamente le casalinghe italiane non ambiscono ad uno stipendio pari a quello (circa 7 mila euro per tredici mensilità) stimato dal Salary.com. Comprendono bene che un simile capitolo di spesa sarebbe assolutamente insostenibile per le finanze dello Stato. Ma non per questo i nostri politici devono esimersi dall’affrontare seriamente la questione a livello programmatico. Riconoscere alle casalinghe a tempo pieno un «assegno mensile» (sia pure simbolico) sarebbe un gesto di vera «civiltà politica».
Anche (e soprattutto) da queste, eventuali sensibilità si misura il «nuovo». Sempre che, stavolta, del «nuovo» ci sia per davvero.

Alfonso Masselli