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Processo alla Mafia del Gargano, Libergolis vuole uscire di galera

Le ombre che il presunto boss Armando Libergolis vide aggirarsi intorno al suo podere la sera del 2 luglio – segnalazione che poi portò al divieto di dimora in Capitanata, anche sul presupposto che l’imputato fosse a rischio di agguati – sarebbero in realtà poliziotti, da lui scoperti mentre gli sistemavano una microspia nell’auto.

 

Lo sostengono lo stesso allevatore, pronto a consegnare alla corte d’assise la microspia che ritrovò nella macchina, e il suo legale, l’avv. Franco Metta. Il maxi-processo alla mafia garganica a 24 imputati è ripreso ieri mattina (per essere subito rinviato, come riferiamo a parte; ndr) in corte d’assise a Foggia con la richiesta della difesa di scarcerare nuovamente Armando Libergolis, 33 anni, allevatore manfredoniano imputato di mafia, estorsioni, traffico di droga e 5 omicidi, in quanto ha trovato una casa in Emilia Romagna dove trasferirsi e può quindi obbedire al divieto della corte d’assise di dimorare in Capitanata.

Il pm della Dda Francesco Giannella si è opposto alla richiesta di scarcerazione, i giudici decideranno nei prossimi giorni. L’avv. Metta, nel motivare la richiesta di scarcerazione, ha ripercorso le tappe della vicenda e rivelato il presunto episodio della microspie.

Libergolis il 26 giugno scorso era stato scarcerato per decorrenza dei termini di carcerazione preventiva, essendo trascorsi 3 anni dal rinvio a giudizio (giugno 2005) senza essere arrivati alla sentenza di primo grado.

La corte d’assise inizialmente – ha ricordato il legale – gli aveva vietato di vivere a Manfredonia, per poi dargli il permesso di dimora nella sua masseria in località «Bissanti» nell’agro sipontino. Il 2 luglio scorso Libergolis vide ombre aggirarsi intorno al proprio podere e chiamò il «113».

In base a quella segnalazione, la polizia scrisse alla Dda – ha ricordato il difensore – facendo presente le difficoltà a controllare il boss in un luogo così isolato. Il pm Giannella chiese e ottenne dalla corte d’assise il divieto di dimora in Capitanata di Libergolis, anche per salvaguardarne la vita in quanto era a rischio di agguati
(già in passato è sfuggito a due tentativi d’omicidio collegati alla faida di Monte Sant’Angelo tra i Libergolis e i Primosa/Alfieri).

Libergolis non obbedì all’ordine della corte di lasciare la Capitanata e l’8 agosto scorso fu arrestato. L’avv. Metta sostiene che adesso, visto che Libergolis ha trovato una casa in Nord Italia, è venuto meno il presupposto che aveva portato al suo arresto-bis, per cui l’imputato deve essere scarcerato (tra l’altro l’arresto-bis sarebbe nullo, altro argomento difensivo, perchè non seguito dall’inter rogatorio dell’imputato).

«E le ombre che Libergolis vide la sera del 2 luglio intorno al suo podere, innescando quindi la segnalazione che ha poi portato al divieto di dimora nei confronti del mio assistito» ha detto l’avv. Metta «erano in realtà poliziotti che mettevano una microspia nell’auto di Libergolis, secondo la mia ragionevole interpretazione».

Circostanza confermata da Libergolis, sia in una lettera inviata alla corte d’assise qualche settimana fa, sia ieri in udienza al cronista: «mi misero una microspia nell’auto, io l’ho trovata e l’ho conservata: sono pronto a consegnarla al presidente della corte d’assise».