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Quelle navi dei veleni affondate alle Tremiti e al largo del Gargano

Secondo un’inchiesta di Gianni Lannes pubblicata il 23 febbraio 2007 su “Left 08”, nel mare prospiciente il Gargano ci sarebbe un cimitero di navi “affondate” per disfarsi del loro carico di rifiuti nocivi. Nel silenzio delle autorità preoccupa l’ipotesi del collegamento tra gli scarichi e la maggiore incidenza del cancro tra la popolazione della zona rispetto alla media del territorio regionale

 

Negli ultimi decenni lo specchio di mare di fronte al Gargano e attorno alle Isole Tremiti sarebbe diventato una discarica abusiva di rifiuti tossici di varia provenienza. Un “sommerso” sfuggito evidentemente al controllo delle autorità territoriali, che hanno acquisito rapporti in cui si parla di incidenti e incagliamenti mentre in realtà si trattava di affondamenti programmati. Se la ricostruzione di Gianni Lannes, che ha pubblicato l’inchiesta per “Left 08” nel 2007, trovasse conferma, verrebbe a galla una verità da far tremare i polsi. Una faccenda gravissima, anche per le sue conseguenze ipotizzate per la salute della popolazione locale oltre che per l’ecosistema marino.
In casi del genere è richiesto evidentemente il massimo della cautela. E’ giusto evitare forzature che potrebbero creare allarmismo su argomenti delicati. Ma altrettanto giusto ci sembra non sottovalutare la ricostruzione che il giornalista fa degli avvenimenti, laddove è articolata e puntuale, ricca di date, con riscontri cercati e raccolti in Puglia e nelle sedi delle compagnie internazionali.
Selin, Orca Marina, Panayotia, Et Suyo Maru. Sono i nomi sinistri delle navi inabissate. Giuseppe Olivieri, Matteo Guerra, Michele Attanasio, Antonio Andretti, quelli dei marinai la cui morte in mare è legata a quei relitti. Dal profondo dell’Adriatico i carichi risalgono in superficie. Certe zone i pescatori le evitano: «Ci sono schifezze di ogni genere. Da quando sono morti dei miei colleghi non ci veniamo più. L’abbiamo denunciato, ma non ci danno retta».
50% superiore alla media nazionale. E’ il dato inquietante sui tumori alla tiroide e leucemie mieloidi che colpiscono la popolazione locale. In un’area priva di insediamenti industriali la causa «è certamente la contaminazione tossica e nucleare», afferma il presidente nazionale di medicina Democratica Fernando D’Angelo.

Apertura prima pagina gargano nuovo aprile 2009
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ecco l’ Inchiesta di Gianni Lannes a pag. 2 GN aprile 2009
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Nel mare pugliese c’è un cimitero di navi inquinanti affondate per nascondere i veleni. I pescatori che sanno spariscono. Le imbarcazioni sono inabissate nei fondali fra il Gargano e il Parco Naturale delle Tremiti. Alcune sono lì da vent’anni. Dai registri della Capitaneria di Porto e dei Lloyd’s di Londra, Gianni Lannes ha ricostruito i loro ultimi spostamenti e la loro agonia

Un cimitero di navi inquinanti affondate nell’Adriatico

Sembra il mare di nessuno. Dove, chi vuole, può affondare le proprie carrette colme di rifi uti pericolosi e intascare il premio assicurativo in uno dei luoghi più suggestivi della costa Adriatica: le aree protette delle isole Tremiti-Pianosa e il parco nazionale del Gargano. Left ha scovato e ricostruito la storia di alcune imbarcazioni inabissate con a bordo un carico di spazzatura tossica e radioattiva. Armati di sonar e ecoscandaglio siamo andati in mare aperto e ci siamo immersi fino a 60 metri di profondità. La pesca questa volta ha dato i suoi frutti. Le informazioni raccolte a Londra, presso la sede dei Lloyd’s, combaciano con le indicazioni dei pescatori sipontini. Al largo del Gargano, in direzione delle isole Pelagose, Left ha individuato numerosi relitti.
La prima imbarcazione, carica di scorie tossico-nocive, porta il nome Selin (1.712 tonnellate di stazza lorda). Ufficialmente è stata autoaffondata il 10 aprile 1989. Poco più in là, nei pressi di Pianosa, riposa il peschereccio Arcobaleno. Secondo quanto si apprende dalle comunicazioni radio con la Capitaneria portuale, è il 12 settembre ’91 quando gli uomini d’equipaggio, testimoni involontari, assistono allo sversamento di bidoni metallici ad opera di un mercantile sconosciuto. L’imbarcazione da pesca viene successivamente speronata dalla nave di 2.582 tonnellate di stazza lorda. I pescatori Giuseppe e Saverio Olivieri e il collega Matteo Guerra risultano dispersi. Il motopesca è adagiato su un fondale a 110 metri. Nello stesso scenario acquatico, 18 miglia a nord-est di Vieste – a 135 metri di profondità – giace l’imbarcazione Messalina. Dai riscontri uffi ciali risulta speronata, il primo maggio 1995, dalla nave Esram (12.670 tonnellate di stazza lorda). Identico copione: la nave cisterna turca viene scoperta alle ore 20 mentre abbandona in mare il suo carico speciale. Le condizioni meteo-marine appaiono ottime. L’Esram urta e affonda deliberatamente il peschereccio di Manfredonia e poi fugge a Rijeka in Jugoslavia. Muoiono Michele Attanasio e Antonio Andretti. Il sostituto procuratore della Repubblica, Giuseppe De Benedectis, ritrova la nave, poco tempo dopo, in Sicilia. La mette sotto sequestro ma non riesce ad individuare i colpevoli. Trascorrono meno di tre anni e, l’8 marzo ‘98, cola a picco a 12 miglia est al largo del Gargano, con mare calma piatta, il peschereccio Orca Marina.
Muore il giovane Cosimo Troiano. «I container sono stati individuati», scrive nel rapporto il capitano di fregata Vincenzo Morante. In una nota riservata – di cui nessun civile era a conoscenza – inviata dalla Capitaneria di Porto al comando navale dell’Adriatico, è scritto: «Il sinistro marittimo potrebbe essersi verificato a causa del probabile incattivamento dell’attrezzo da pesca a strascico in un ostacolo presente sul fondale marino. Inoltre, dall’esame delle deposizioni testimoniali rese dai naufraghi, è risultato che tale ostacolo potrebbe essere uno tra i tanti container presenti nella zona, sbarcati tempo addietro da nave sconosciuta. Pertanto si prega di disporre un’accurata perlustrazione all’interno dell’area dove giace il relitto». Potrebbe trattarsi del mercantile bulgaro Osogovo, l’ultima nave avvistata ad abbandonare il suo carico di morte.
Nell’estate del ‘98 il cacciamine Vieste localizza la motobarca, mentre la nave Anteo trasporta i palombari del Comsubin che recuperano il corpo del pescatore e filmano i container. La notizia del ritrovamento del cimitero subacqueo di rifiuti rimane però “top secret”.
«Attualmente sappiamo dove sono i container che i pescatori locali hanno provveduto a segnalare con l’ausilio del Gps», dichiara nel carteggio il comandante De Carolis. «A tutt’oggi, fatto grave – argomenta il senatore Francesco Ferrante – la Marina Militare non ha ancora fornito all’autorità giudiziaria i filmati che potrebbero far luce sulla vicenda dei rifiuti affondati in questo tratto del Mediterraneo poco sorvegliato».
Nel cuore della riserva marina delle Tremiti non si entra se non con un permesso speciale che la Capitaneria non concede quasi mai. A ridosso dell’isolotto di Pianosa giace una nave battente bandiera cipriota. È la Panayiota che venne volontariamente affondata in questo paradiso terrestre l’11 marzo 1986. Il mercantile custodiva nella stiva circa 695 tonnellate di residui chimici.
Grazie ai registri dei Lloyd’s di Londra abbiamo ricostruito i suoi movimenti: il 2 febbraio la Panayiota parte da La Spezia diretta verso la costa africana. Il 5 marzo, dopo che aveva già cambiato identità (facendosi chiamare prima Nounak e poi Vosso), salpa da Alessandria d’Egitto diretta a Sitia, in Grecia.
Sei giorni più tardi si materializza al largo del Gargano: «Intorno alle 23 e 15 la nave ha urtato con la prua sugli scogli dell’isola di Pianosa». A scriverlo, nel rapporto che abbiamo recuperato presso la Capitaneria di Porto di Manfredonia, è il sottotenente di vascello Corrado Gamberini.
Il faro dell’isola è acceso. La visibilità quella notte è ottima, di oltre due miglia sul mare forza 3 col vento che spira da sud. Il mercantile procede a una velocità di 8 nodi e mezzo sulla rotta 303: radiogoniometro, scandaglio ultrasonoro, pilota automatico, bussole magnetiche e registratore di rotta funzionano. Il capitano Mikail Divaris non lancia l’Sos. Poco dopo l’incidente alla Panayiota-Vosso si affianca la motonave El Greco che raccoglie gli 8 uomini d’equipaggio: 4 egiziani, 2 greci, un cileno e un tunisino.
«All’atto del sinistro, il Divaris non effettua i rilevamenti geofisici, non controlla la condizione del carico e l’entità dei danni subiti dalla nave; non tenta neppure di disincagliarla», rileva il rapporto della Capitaneria di Porto di Manfredonia. Il 12 marzo giunge a Pianosa la motovedetta Cp 2012. Un lezzo insopportabile investe i guardiacoste.
L’armatore greco Emanuel Tamiolakis, titolare a Limassol della Navigation Limited, si rifi uta di recuperare la carretta. La situazione precipita, tant’è che Giuseppe Ciulli, comandante della Capitaneria, si rivolge all’Ispettorato centrale per la difesa del mare: «Organi sanitari nazionali hanno dichiarato sussistere imminente pericolo inquinamento». Ma nonostante ciò lo Stato italiano non interviene. Il 12 agosto Fernando Mengoni, medico dell’Usl Foggia/4 approda a Pianosa e denuncia: «La stiva della nave risulta aperta: la parte del carico visibile all’ispezione risulta essere formata da una fanghiglia fortemente maleodorante di color nocciola, con vaste zone schiumose ed in evidente stato di fermentazione e putrefazione». Il 14 ottobre il direttore generale del ministero della Marina Mercantile si accorge del disastro: «Permane nella zona una situazione che può rivelarsi compromissoria per l’ambiente e per il paesaggio », ma non muove un dito.
L’ordinanza di sgombero (la 21/86), emanata dal Comune delle Isole Tremiti cade nel vuoto. Epilogo: l’incidente con tutta probabilità è stato provocato per intascare il premio assicurativo stipulato con l’Ocean Marine Club di Londra.
Il 16 dicembre 1988, tocca alla nave di fabbricazione giapponese, Et Suyo Maru, proveniente da Beirut, inabissarsi inspiegabilmente dinanzi al litorale garganico. Il relitto (3.119 tonnellate di stazza per 95 metri di lunghezza), non è indicato su alcuna mappa, ma si è insabbiato sulla duna del lago costiero di Lesina. Attorno allo scafo, per un raggio di tre chilometri sul litorale, giacciono 23 barili arrugginiti e maleodoranti. Tanti ne abbiamo fotografati. Ma potrebbero essercene molti altri sepolti sott’acqua lungo gli 80 chilometri di costa. In zona i vigili dell’Azienda sanitaria Foggia/1, hanno ritrovato due tonnellate di rifiuti radioattivi. «Nei cumuli di scorie abbiamo rilevato 1.700 becquerel per chilogrammo di sostanza. Sedici oltre la soglia di rischio per l’essere umano, stabilita convenzionalmente in 100 becquerel », rileva il professor Domenico Palermo, direttore del dipartimento di chimica dell’istituto Zooprofilattico di Puglia e Basilicata. «Se miscele di prodotti di fissione sono penetrate nella catena alimentare hanno innescato processi di mutagenesi».
Dagli archivi degli ospedali locali emergono patologie inquietanti sulla popolazione del Gargano (220.000 residenti) e di Capitanata (800.000 cittadini): leucemie mieloidi e tumori alla tiroide superiori del 50 per cento alla media nazionale. «In quest’area priva di insediamenti industriali non si discute se vi sia o meno rischio causato dalla contaminazione tossica e nucleare: vi è purtroppo la certezza.
Si discute sulla quantità di individui colpiti», denuncia il dottor Fernando D’Angelo, presidente nazionale di Medicina Democratica. «La radioattività riscontrata ha innescato sinergismi imprevedibili: cancro, leucemia, malformazioni in prenatalità, anomalie della crescita». Eppure esiste più di un precedente. Veleni micidiali sono stati sversati nell’Adriatico dalla metà degli anni Settanta e tra i primi responsabili, secondo sentenze ormai passate in giudicato, c’è l’Anic-Enichem, autorizzata dal governo italiano a gettare nell’Oceano Atlantico e nel Golfo della Sirte in Mediterraneo, i propri scarti chimici.
In realtà, per anni, per risparmiare sui viaggi, a poche miglia dal litorale garganico, gli uomini alle dipendenze del “gigante buono”, abbandonavano in mare ben «novemila tonnellate di rifiuti pericolosi» ogni venti giorni.
La vicenda, scoperta casualmente il 17 novembre 1980 a causa dei gravi malori del vice comandante Primiano Giagnorio, è racchiusa in un fascicolo processuale dimenticato. Il procedimento penale si è concluso il 20 gennaio 1988 con sentenza di condanna a 8 mesi di reclusione per Alessandro Camurati, armatore della nave Irene e due suoi ufficiali. Angelo Dell’Utri e Matteo D’Errico (comandante e vice) ammisero in sede dibattimentale che «i rifiuti erano sempre stati scaricati in Adriatico dinanzi al Gargano». Gli eczemi a pelo d’acqua continuano imperturbati a danneggiare l’ecosistema marino.
A nord delle isole Diomedee, infatti, si nota ancora oggi un rosso intenso che s’accentua al tramonto. È la zona di affondamento che i pescatori locali evitano come la peste: l’ecoscandaglio segnala 117 metri di profondità. «Qui sotto ci sono schifezze d’ogni genere», denuncia Michele Matassa, un giovane lupo di mare. «Da quando sono morti diversi miei colleghi noi pescatori non ci veniamo più. L’abbiamo denunciato alla Capitaneria di Manfredonia, ma non ci danno retta».
Per un decennio in questa area naturalistica, trasformata in tombino industriale, ma anche al largo di Otranto, un’altra nave dal nome suadente, l’Isola Celeste (di proprietà della Finaval di Palermo, noleggiata anch’essa dall’Enichem) dal 1982 in poi ha sversato sui fondali tremila tonnellate alla settimana di scorie industriali. Dopo un accertamento scientifico sulla moria di fauna marina, che stabilì un nesso di causalità con gli scarichi ordinati dall’Eni, la magistratura dispose il sequestro della nave-cisterna. Gli esami hanno accertato che «nei reflui dell’Eni sono presenti mercurio, cromo, fenoli, solventi ». Gli stessi composti che ancora oggi uccidono per emorragia gastrointestinale i delfini e le tartarughe che vivono in questa discarica marina.

I DATI
Mediterraneo a perdere
In Italia solo il 15 per cento dei rifiuti pericolosi viene smaltito a norma di legge. Il traffico di rifiuti industriali a bordo di carrette a perdere dall’Italia verso l’Africa e l’Asia è in continua crescita. Le navi vengono deliberatamente affondate anche nel Mediterraneo col carico di scorie radioattive e tossiche. Secondo Wwf e Legambiente «43 sono le navi dei veleni scomparse misteriosamente dal 1987 al 1995 nei mari italiani». Ben 26 vengono indicate dal Comando generale delle Capitanerie di Porto. Lo evidenzia l’inchiesta della Procura della Repubblica di Reggio Calabria, archiviata nonostante le prove inequivocabili e riaperta da Luciano d’Emmanuele, capo della Procura di Paola. Il numero delle navi autoaffondate è sensibilmente maggiore di quello uffi ciale, come documenta l’inabissamento nell’Adriatico fra il 1987 ed il 1993, delle navi Anny, Alessandro I, ed Euroriver

IL CASO
I nomi dell’Eden
«Sulla costa garganica giace una nave giapponese che desta allarme per la salute e per i rischi ambientali, anche a causa della presenza di un centinaio di fusti abbandonati». Così il senatore Francesco Ferrante ai ministri dell’Interno, della Salute e dell’Ambiente. Ma cosa nascondeva quella nave in riva al lago di Lesina, tanto che nessuno l’ha mai reclamata e che ora, dopo l’interrogazione parlamentare, l’amministrazione provinciale di Foggia si è affrettata a far sparire? L’imbarcazione, varata in Giappone nel 1969, si chiama Eden V, ma questo nome è solo la sua ultima mimetizzazione. I Lloyd’s di Londra rivelano che la nave si chiamava Et Suyo Maru, Pollux (1980), poi Mania (1983), quindi Haris (1984), Hara (1985), Happiness (1986), Fame, Leskas Sky, Kiriaki (1987), Ocanido, Sea Wolf (a inizio 1988). L’ultimo passaggio di proprietà è avvenuto nel 1988. A comprarla è stata la “Noura-Court-Apt 105” di Limassol (Cipro). Alle ore 16,25 del 16 dicembre 1988, il colonnello Ubaldo Scarpati, responsabile della Guardia costiera sipontina, viene allertato dal centro di soccorso aereo di Martina Franca. Il comandante della Eden V, incagliata sui bassi fondali del Gargano, rifi uta «ogni forma di assistenza facendo sapere che non corre pericolo e che egli stesso provvederà al disincaglio», come è scritto nel rapporto inviato alla Procura di Lucera. Il comandante libanese Hamad Bedaran prima di dileguarsi viene interrogato dal sostituto procuratore Eugenio Villante. Al magistrato dichiara che «la nave salpata da Beirut, dove aveva scaricato legname, aveva puntato su Ploce in Jugoslavia per caricarvi una partita di ferro». Secondo Scarpati «sulla carta nautica sono segnate altre rotte, una delle quali è la 285, e cioè dal centro del Mediterraneo verso la costa garganica». L’International Maritime Bureau con telex del 21 dicembre 1988 comunica che «i documenti di classificazione dell’American Bureau sono falsi e che la citata unità non è mai stata iscritta presso i loro registri.

GIANNI LANNES

Inchiesta pubblicata su Left 08 del 23 febbraio 2007 e ripubblicata sul Gargano nuovo aprile 2009 a pag 2: