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GLI OCCUPATI DISOCCUPATI

In Italia occorrono più industrie (quelle vere).

 

L’Italia, da troppi anni, è perennemente in crisi. Superata una crisi economica, ce n’è subito un’altra. E la disoccupazione giovanile (e non solo giovanile) sta diventando una caratteristica permanente della nostra società.
Dove andremo a finire?  Ma perché tutto questo?
Oltre alla scarsa ricettività del mercato, vi sono ragioni più profonde che accentuano in Italia la crisi economica congiunturale.
Purtroppo, nel nostro Paese, si è valorizzata la figura del commerciante, ovvero di colui che non produce, ma rivende prodotti o servizi.
Si è così favorita la tendenza al restringimento della base produttiva, che si andava già puntualizzando in tutto il mondo occidentale.
Questo è stato un errore. Un grande errore.
A differenza del commercio, l’industria dà lavoro a tante persone che, in una società eminentemente commerciale (e, quindi, sostanzialmente individualista), non avrebbero – come non hanno – possibilità alcuna di occupazione.
In una società non esistono, però, solo gli “imprenditori di se stessi”. Vi è anche chi non ha l’attitudine ad organizzarsi il lavoro. Ma non per questo deve rimanere senza occupazione.
In conseguenza dello sviluppo economico dei decenni passati, molte famiglie appartenenti al ceto operaio si aspettavano dai propri figli una promozione sociale. Spinsero così i giovani verso il diploma e verso la laurea, tenendoli a lungo fuori del mondo del lavoro.
Se si tiene poi conto che gli altri ceti si sono sempre dati un’aria di superiorità riguardo ai lavoratori manuali, allora la fuga dal lavoro manuale (cui qualcuno preferisce, addirittura, la disoccupazione) non rimane inspiegabile né deve far gridare allo scandalo.
In questo quadro, le Università tradizionali (cui, negli anni, se ne sono aggiunte di nuove) si sono gonfiate in un enorme parcheggio per forza lavoro, che non intendeva essere assorbita dal mercato industriale.
Le industrie, in quegli anni, erano messe sotto accusa. Le condizioni di vita degli operai erano descritte tra le peggiori. “Studia, altrimenti finirai in fabbrica”, diceva il padre operaio al proprio ragazzo. Oggi quel ragazzo dice al padre: “Almeno tu, lavorando in fabbrica, ti sei potuto permettere una casa, una famiglia, una pensione”.
Da un po’ di anni, gli investimenti sono diretti prevalentemente verso settori che richiedono molti capitali ma scarsa mano d’opera. Perciò, a meno che non si facciano decise scelte per una politica economica di segno opposto, la disoccupazione rischia di essere l’avvenire di tanti giovani. Per combatterla, i piani di «preavviamento» dei giovani al lavoro possono costituire, al più, solo provvedimenti tampone, forse utili, ma il problema va, tuttavia, affrontato, predisponendo interventi più sostanziali.

Alcuni anni fa, conobbi un sindacalista di fabbrica, che ne aveva viste di tutti i colori.
Parlammo di disoccupazione, e subito mi disse: “Non tenere conto dei dati statistici. Non fotografano la realtà”.
Pensai che si riferisse al “sommerso” e che, quindi, volesse dire che i disoccupati italiani sono, in realtà, meno di quelli che ufficialmente risultano.
Mi replicò: “No, in Italia, i disoccupati sono, in realtà, molto più di quelli che appaiono”. Francamente non capii.
Allora Enzo, così si chiamava, mi fece delle considerazioni estremamente interessanti. Osservò che, in genere, le statistiche si basano su ciò che appare, non su ciò che è. Il disoccupato è, per definizione, chi non risulta assunto o non esercita una libera attività, artigianale, imprenditoriale o professionale. Nella realtà – mi evidenziò – esiste una larga fascia di “occupati” che non guadagna una lira (allora non c’era ancora l’euro). Ed aggiunse: “Questa fascia è costituita da tanti giovani liberi professionisti, formalmente sottratti alle liste dei disoccupati”.
Mi fece questa sintesi. Un giovane in possesso di un titolo di studio, che non ha trovato l’agognato posto e non può contare su un’attività avviata dai propri genitori, ha due alternative: iscriversi nelle liste di collocamento oppure in un albo professionale. Spesso la scelta cade sulla seconda iscrizione, nella speranza di poter concludere qualcosa.
Ma – secondo Enzo – è solo il modo per sottrarsi all’umiliazione di essere, dopo anni di studio e sacrifici, ufficialmente dei disoccupati. Anche se, il più delle volte, lo sono nella sostanza.
Aprono uno studio, il cui affitto lo pagano i genitori. Acquistano un’automobile, le cui rate le pagano sempre i genitori. A volte, a pensarci sono, addirittura, i nonni.
Apparentemente, hanno un lavoro, uno studio professionale, un’automobile. Sono autonomi, sulla carta. Nella realtà, invece, non possono mettere su famiglia, acquistare una casa, costruirsi un futuro.
Ma questo alle statistiche sfugge. Anzi, lo interpretano come una scelta dei giovani d’oggi, ritenuti dei «mammoni». La realtà è ben altra: non hanno soldi per andare a vivere per fatti loro.
Seriamente preoccupato, aggiunse: “Così quei giovani si incartano su se stessi. Si rendono complici di una grande menzogna”. E si domandò (da sindacalista): “Come possiamo difenderli se dichiarano di essere occupati quando, nella sostanza, non lo sono affatto? Se dicono, per dignità, che guadagnano?”
L’opinione di Enzo può anche non piacere. Ma la questione è un’altra. E’ se la sua analisi risponde, anche solo in parte, a verità.

Alfonso Masselli