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Urgenza educativa: è l’alterità la misura dello sviluppo e del bene degli altri

L’urgenza non è uguale alla fretta. L’urgenza è la comodità personale della fretta altrui. Spesso chi ritiene urgente qualcosa non ha la fretta di farla subito, quanto di farla fare subito. L’urgenza coinvolge più chi ascolta che chi la propone. Anche se ambedue sono figlie del tempo perso, disperso in altro. E poi all’improvviso ci accorgiamo che è tardi, manca poco a qualcosa di cui no possiamo fare a meno. Ed allora ci affrettiamo. Negli ultimi tempi il lessico massmediale ecclesialese è stato più volte connotato dalla parola “urgenza”. Rispetto a quel parlare più sostenuto che spesso rivelava accidia da parte di chi parlava ed irritazione da parte di coloro che aspettano da tempo quanto gli spetta. Ultimamente l’urgenza non è stata molto associata alla carità (nelle sue dimensioni culturali, sociali, alimentari, di ospitalità. . .) ma all’educazione. Da quando papa Benedetto XVI l’ha proposta sono trascorsi tre anni’ . E già da allora il compito dell’educazione era urgente, ma non ci deve essere stata tanta fretta, se ci possiamo domandare che cosa si è fatto da allora per rispondere a questa urgenza? Niente? Poco? Qualcosa? Troppo poco? Tanto? Cioè, che cosa? Se la risposta — onestamente – è il silenzio (molto raro!) o il balbettio o tante parole, vuol dire che non si è fatto niente O talmente troppo poco da poter dire che forse non era così urgente. Altrimenti… ci saremmo organizzati di più… e meglio! Urgenza nel dire ma non nel fare. L’urgenza esige anche che qualcuno rivolga verso di sé il dito della responsabilità ed interroghi la propria coscienza: la mia testimonianza è realizzata secondo i tempi e le urgenze delle necessità e dei bisogni degli altri, del prossimo? E dopo averlo fatto, con coerenza, orienti quello stesso dito verso coloro che istituzionalmente (civilmente ed ecclesialmente) ne sono i ministri, gli operatori, i responsabili. . . Con l’umiltà di chi interroga gli altri perché si è già interrogato e pone il problema perché è disponibile a risolverlo insieme. Perché l’urgenza si misura a partire dalle necessità degli altri e non sui propri tempi. A quel discepolo che voleva riservarsi un tempo — solo – per seppellire suo padre, Gesù lo invita ancora a seguirlo, poi lo ritiene morto e becchino di se stesso se non «lascia che i morti seppelliscano i morti» (Mt 8,22). Chi non ha tempo non proclami urgenze. Né per sé né a nome degli altri. Riconosca che il suo tempo è altrove, per altro, per altri, per se stessi. L’urgenza cioè si definisce dagli altri, dall’alterità del prossimo. Non da se stessi: chi sta bene non ha urgenze di far star bene gli altri! Non ne percepisce il tempo di sofferenza e il grido di giustizia e di carità di chi attende; né intende abbreviarlo ignaro (o consapevole?) che per un malato il tempo di attesa è vita e se si interviene con urgenza lo si può salvare. Quando anche il codice rosso è soggetto al medico che aspetta di intervenire finché la sua squadra segni un goal, la sua squadra forse vince, ma l’ammalato muore! Perché ha ritenuto più urgente dare tempo e spazio alle esigenze della propria identità che a quella del prossimo. Perciò non è l’identità il punto di partenza e il fulcro per promuovere e realizzare un progetto di sviluppo. Anche se si coinvolge l’identità di tutti. E l’alterità la misura senza misura dello sviluppo, del bene degli altri sul quale ottempero e tempero il mio. Se la propria identità non è donata e non ospita quella degli altri, come potrà valutare se è urgente fare qualcosa per gli altri? Mi limiterò a includere gli altri, ma non a valorizzarli. A fagocitarli e ad assimilarli ma non a promuovere la loro diversa identità, la loro alterità. A farli a mia immagine e somiglianza. E non ambedue ad immagine e somiglianza di Dio e a cristiformità al suo Figlio Unigenito. E per far prendere respiro all’urgenza, si elaborano progetti, si attivano processi di partecipazione, ci si interessa dei poveri, degli emarginati, degli ultimi. Ieri come oggi. Ieri, nel 1974 il cardinal Ugo Poletti insieme a mons. Luigi Di Liegro avevano compreso i “mali di Roma” e si diedero da fare, praticando l’urgenza della carità politica e l’istanza della giustizia verso coloro che ne erano i responsabili2. Oggi si sposta l’orizzonte operativo di progettazione (e non verifica e di attuazione) sempre più in là: per il decennio 201 0-2020 quello degli Orientamenti pastorali dell’Episcopato italiano «Educare alla vita buona del Vangelo»3 e per lo stesso decennio quello degli Stati Generali di Roma Capitale. A proposito di quest’ultima performance, martedì 22 febbraio, il cardinal Agostino Vallini, Cardinal Vicario del Papa per la diocesi di Roma, è intervenuto con un suo discorso, su invito del «Signor Sindaco» di Roma. Oltre a tante altre possibili considerazioni che urgentemente esigerebbe il suo discorso, . . . alla fine ha detto: «Non intendo naturalmente muovere dei rilievi alle istituzioni civili, che anzi ringrazio per il sostegno concreto a tanti profeti di solidarietà, ma evidenziare una prospettiva culturale e politica che, affrontando con decisione il popolo dei meno provveduti, promuova il bene comune e la pace sociale. […]». Ecco, ci sono delle parole che pronunciate la prima volta incidono, ripetute solleticano, ridette rimbalzano per assuefazione accidiosa di chi le ascolta. Le parole dell’espressione “affrontare con decisione. : . .“ sono quelle che ai politici e ai responsabili non fanno né caldo né freddo, cioè non procurano l’urgenza di provvedere almeno a se stessi (coprendosi o togliendosi qualche abito o qualche sassolino dalla scarpa). Le prime parole sono quelle di un vescovo e di un pastore o piuttosto di un principe della Chiesa? In quel «naturalmente» si evince una risposta. Molti (di noi) oggi constatiamo che chi siede a pranzo lascia soltanto le briciole della gestione politica ai ‘cagnolini’ e se qualche donna cananea pone una istanza, la si esclude perché è estranea e straniera (il lessico è quello della straniera donna cananea di Mt 15,22-27). Il discorso del cardinal Vallini va letto integralmente, anche perché cita la lettera del Papa sull’urgenza educativa , con motivazioni di urgenza poco urgenti se non flaccide. Ma perché non fa memoria del Convegno promosso dal cardinal Poletti? Avrebbe riconosciuto una profezia e sarebbe stato più coerente nel suo ruolo di rappresentante vicario della cristianità. Ma forse non è un’urgenza ‘urgente. E non c’è fretta. Analogamente vale per noi insegnanti: quanta urgenza educativa è sentita da chi insegna e da chi insegna religione e da chi gestisce questo insegnamento da parte ecclesiastica? E così altre domande equivalenti. . . perché il dovere! diritto di interrogarsi e il diritto!dovere di interrogare ci insorge ecclesialmente dal battesimo e civilmente dall’essere cittadini. E dal voler essere riconosciuti adulti e responsabili. Per cui chi ha risposte le evidenzi, le mostri, le di-mostri. Perché non aver ragione davanti a queste domande sarebbe l’unico modo per dare ragione ai fatti e non ai pro- grammi e alle parole di convenienza. Potrebbe essere l’unica volta in cui si potrebbe essere felici di non avere ragione! «I miei eletti — dice il Signore – useranno a lungo quanto è prodotto dalle loro mani» (Isaia 65,22). Quali le testimonianze più urgenti per una “Chiesa del grembiule”? E ciò che avviene a Roma per gli Stati Generali, a Napoli per il Giubileo interessa ogni altra chiesa di Dio che abita in ogni paese del mondo, perché la Chiesa condivide nella cattolicità i doni di Dio e le testimonianze degli uomini.

Pasquale Troìa
docente di religione