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Vico/ Caro Piero…mi chiedi l’ex post dalle “mie prigioni”…

L’epilogo della "storiaccia" di Peppino Maratea nello scambio epistolare con il direttore dell’Attacco Piero Paciello.

 

Caro Piero

chi è il vero giornalista? I cronisti questa risposta l’hanno già data, allorché istituendo il "Premio del Cronista", hanno adottato come simbolo una statuina di bronzo che raffigura un cavaliere antico, che a volte è un Don Chisciotte, ma a volte è un uomo senza macchia e senza paura, cioè un uomo libero.
E ora che mi chiedi una sorta di "reportage" ex post dalle "mie prigioni", e cioè di ripercorrere le fasi della "storiaccia" che mi ha, per circa tre anni e mezzo, segnato profondamente, non posso, nell’ottica del Premio cui accennavo, non rivolgere un pensiero di gratitudine e una pubblica testimonianza a "l’Attacco" e alla brava e tenace Antonella Soccio che hanno seguito con puntualità e con coraggio i fatti (e i misfatti) di un’incredibile vicenda giudiziaria, dimostrando come sia possibile a un foglio di Provincia fare giornalismo d’ inchiesta, non basato sui comunicati ufficiali delle Procure e sui "mattinali" delle Questure: l’esatto contrario del quotidiano barese che "appena" trentaquattro volte ha pronunziato sentenze (ovviamente, di condanna), in assenza dei processi.
Tralascio di raccontarti le angosce, i tormenti, la vergogna, gli incubi interminabili di giorni e notti insonni, in attesa del controllo asfissiante dei Carabinieri, il pianto senza pudore e senza reticenze, la rabbia impotente, il tubo del gas a portata di mano, rimasto fortunatamente attaccato, e, da ultimo, il "cane nero", il "male oscuro", di cui ha scritto Giuseppe Berto, che stava per travolgermi. No, è giusto che questi stati d’animo restino confinati nella sfera del mio privato, nella speranza che il dolore si trasformi in doloroso ricordo.
In fretta e furia, invece, elaboro qualche frase per un "visto da vicino" dell’avvocato Raul Pellegrini, il protagonista assoluto dei due gradi di giudizio, in cui mi ha assistito, e che, senza parere, mi ha insegnato che l’innocenza e la convinzione hanno una forza contro cui lo scetticismo e la diffidenza non reggono a lungo (utilizzo, qui, alcuni appunti presi a margine delle più convulse fasi processuali, assieme a tanti ricordi, a tante sensazioni rinviabili, forse, a un tempo futuro come ordigni a scoppio ritardato o plichi da aprire in alto mare…).
L’avvocato Pellegrini è un uomo colto, non prigioniero di nessuna retorica, che parla e scrive in un bell’italiano, che ha il sapore del pane fatto in casa: senza gesti, senza mimica, senza inflessioni di alcun genere, il suo "ragionamento" si snocciola con ineccepibile rigore e perfino con una punta di austerità, lontano mille miglia da quei "genialoidi" che, nelle aule di Giustizia, si esauriscono in una nuvola di parole, dalle quali non piove mai nulla.
Quando scrive, lo fa in uno stile parlato, antiaccademico, antiaulico, antiprofessorale, senza trasalimenti né oscillazioni, che attinge a una cultura che si sente, ma non si vede: estraneo completamente alla moda del ruzzolare in una frana di paroloni vuoti e altisonanti che faceva (e fa) la fortuna dei patetici penalisti del Sud di ieri (e di oggi). Eloquio pulito, esangue, sterilizzato, in cui la parola "io" quasi non esiste, Pellegrini procede filato e senza intoppi, tali sono la precisione dei sostantivi, la calibratura degli aggettivi, lo scrupolo aristocratico della logica, il religioso rispetto della sintassi.
Ma sono convinto che – nei miei due processi – non è stata l’eloquenza dell’avvocato a persuadere i suoi interlocutori, che a essa sono avvezzi, e credo (e spero) che ne diffidino. Pellegrini, infatti, non ha trascurato nulla, neanche le virgole: non ha mai improvvisato, né lasciato nulla al caso (ed è la cosa più "strana" in un Paese, in cui la Giustizia muore di pressappochismo).
Ma è durante il "controesame" dell’accusatore e dei testimoni di corredo che Pellegrini dà il meglio di sé, facendo emergere interessi e complicità di famiglie, di amicizie, di assiduità, di quartiere…Come il sole dopo un "tornado" estivo, gli interrogatori procedono con scioltezza…Pellegrini non incalza, non usurpa, non prevarica: usa quella che Luigi Luzzati chiamava la "bonomia arsenicale". E, da fine psicologo, escogita la medicina per calmare quella specie di "delirium tremens" di Verrocchi e C. (li cito solo – e per una volta – per amore di cronaca), una sorta di verginelle comunicande, tutte tremori, pudori e rossori: formidabili. Formidabili soprattutto come mentitori. Pronunciano, infatti, le bugie, come altri fa la ginnastica svedese: per scrupolo igienico, per tenersi in allenamento. Pellegrini, da attento osservatore, coglie tutte le sfumature, evidenzia tutte le contraddizioni. Guardandolo, torna in mente quell’eroe di Steinbeck, protagonista di "Uomini e topi", che strangolava le ragazze, volendole carezzare.
E, dunque, il mio compiacimento per i successi davvero sensazionali dell’avvocato Pellegrini (che, in quest’occasione, sono anche i miei) è senza riserve: sarebbero riserve ipocrite – lo riconosco – perché io in Pellegrini credo come in nessun altro avvocato (anche se so perfettamente di non trovarmi in tono con qualche esperto di "giure" che non perdona chi stacca tutti in salita).
 In questi anni di frequentazione, Pellegrini mi ha incusso un gran rispetto senza timore (al contrario di tanti altri che, dalle nostre parti, incutono un gran timore senza rispetto).
Avrei spesso voluto chiedergli un giudizio sui suoi colleghi avvocati (e non l’ho fatto), ma so che mai esso sarebbe stato sfavorevole o meno che riguardoso. "Sono brave persone anche loro…", avrebbe detto sorridendo. Quell’ "anche"è l’unica parola che potrebbe prestarsi a qualche maligna interpretazione. Ma sarebbe del tutto involontaria.
E ora, che siamo alle ultime battute del Processo di Appello, a Bari, Pellegrini conclude il suo, ancora una volta, incisivo intervento…Piega il fogliettino…Affissa gli occhi nel vuoto, e pensa già al processo successivo: domani è un altro giorno…Viene, finalmente, letta la sentenza di assoluzione piena…"Roma locuta causa finita"…E io, paradossalmente, sono preso (anche qui Pellegrini ha un ruolo) da uno stato d’animo complesso e indecifrabile, che oscilla tra la nostalgia e il rimpianto, e che i portoghesi chiamano "saudade".
Anche per questo capisco che Pellegrini non è solo un grande avvocato. E’ qualcosa di più: è un uomo.
P.S. Un grazie affettuoso (come dimenticare?) devo anche all’amico avvocato Vincenzo Palumbo, che ha contribuito a mettere insieme pezzi importanti di questo "brutto pasticciaccio", con un prezioso lavoro di "cucina".

Giuseppe Maratea