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Gargano, l’altra faccia della mafia decapitata

Ora che non c’è quasi più nessuno nel piccolo borgo sotto il sole a dettar ordini o a far da sentinella si fa strada l’altra storia, quella di una mafia garganica senza un capo. Falcidiata ora dai tribunali ora dalla inesorabile resa dei conti della vendetta, Monte Sant’Angelo, la «Betlemme della faida», vive la realtà di una mafia stracciona affidata a gregari, sprizza segnali di una deriva di quel fenomeno arcaico traslato nella modernità. Faida ferita nella sua essenza di fenomeno con la sua prole vendicatrice. Che sia così nessuno ci crede, tanto è grande il mare degli affiliati; ma il colpo di maglio della giustizia almeno in quella prodromica fase investigativa e non solo (anche quella processuale) ha tolto dalla scena boss e figure di primissimo piano. Mafia allo sbando.

Faida estinta no, ma che le famiglie si stiano cucendo addosso una nuova vita sì. In carcere con un ergastolo Franco Libergolis, assicurato alla giustizia Pacilli, dentro dopo due anni anche Renzino Miucci è come se fossero crollati i capisaldi di una famiglia che, perso il capostipite, Ciccillo Libergolis, è ora allo sbando. I personaggi da anni alle prese e sicuramente più esposti con l’iconografia della faida dei morti ammazzati sono sepolti dalle accuse. Anche Renzino Miucci, <u creatur> dopo aver visto per due anni il cielo color notte vissuto per mesi giorni assenti nascosto in un armadio di casa col doppiofondo si è arreso. Ha fatto sì che gli bastasse quell’unica idea di fantasia di fedelissimo di Franco Libergolis favorito nella latitanza. La faida raccontata e rielaborata dalla giustizia parla di un fenomeno ammorbato e senza capi: l’ultima sentenza della Cassazione ha confermato il carcere a vita per l’ex super latitante Franco Libergolis, per Carmine Grimaldi, per Matteo Mangini e per il cosiddetto "braccio armato" Gennaro Giovanditto: tutti esponenti di spicco della faida del Gargano.

Confermate anche in Cassazione le condanne inflitte a luglio dello scorso anno dalla Corte d’ Assise di Appello di Bari agli affiliati alla mafia del promontorio, quella che da oltre trent’anni ha seminato morte e terrore sul Gargano. Una lotta senza esclusione di colpi per il controllo di affari illeciti: estorsioni, traffico di droga e contrabbando. Ergastolo, dunque, per Carmine Grimaldi, accusato dell’omicidio di Antonio Vocino, ucciso il 3 settembre del 2003 a San Nicandro Garganico; ergastolo per Franco Libergolis, accusato dell’omicidio di Matteo Mangini, assassinato a Manfredonia il 2 settembre del 2001. Doppio ergastolo per Gennaro Giovanditto accusato il duplice omicidio di Vincenzo e Angelo Fania, padre e figlio uccisi a San Nicandro Garganico il 13 ottobre del 1999 e per l’omicidio di Michele Tarantino ucciso sempre nel piccolo centro garganico il 30 marzo del 2001. Tra le altre condanne, quella a 27 anni ad Armando Libergolis e a 26 anni e sei mesi per l’altro fratello Matteo. 3 anni e sei mesi, infine, per la pentita Rosa Lidia di Fiore. Tutti coinvolti nella inchiesta denominata Iscaro-Saburo, del giugno 2004, operazione che portò all’arresto di 99 persone ritenute riconducibili alla sanguinosa lotta tra gli allevatori.

Chi comanda adesso? Chi fa le veci del boss di una mafia decapitata? Ora che la morte non ha più maschere. Erano tutti personaggi con una vita senza appello, più che la condanna temevano per la sopravvivenza: la legge morale dentro di me, il cielo stellato sopra di me. Non era riuscito a vendicare la morte del figlio nemmeno Ciccillo, quello che parlava con gli occhi, non faceva mai la manutenzione al suo sorriso, e che i killer hanno ucciso davanti a casa sua mentre si preoccupava di aggiungere acqua al radiatore della sua auto in panne. Destino di gente dal cuore di tenebre, generazioni di carnefici e vittime al tempo stesso, rampanti solo in funzione della vendetta alimentata da anni e anni di odio. Coefficiente di persuasione zero. Certo che l’omicidio di Ciccillo Libergolis era stato lo svarione epocale. Da quel giorno ogni fazione in faida pensava a costruire l’istante che stava per accadere. Ogni gesto un avvertimento ai superstiti, con lo specchio che ti respirava accanto come un cattivo pensiero che sta lì ad aspettare. Era il boss invecchiato all’ombra dei ricordi Ciccillo, personaggio fondamentale nella fenomenologia criminale. Dal giorno della morte del figlio era rimasto prigioniero di un tormento e delle ragioni più profonde della sua vita: la vendetta. La sua morte aveva rotto le equazioni della stessa violenza. Prima faida e poi mafia: sulla terminologia e sul lessico aggiornato di quel termine (distinguo sottile ma sostanziale) si è cimentato recentemente in un libro anche un magistrato che quelle storie le ha toccate con mano: Domenico Seccia, oggi procuratore capo a Lucera resta oggi come molti altri uno dei più convinti assertori che il sangue narrato della faida abbia sempre una soluzione incorporata e che la soluzione dei misteri sia sempre nell’episodio successivo. Come dire l’omicidio del dopo spiega il precedente, con lostato assente e quasi sempre in ritardo sulla scena madre della faida.

Famiglie travolte dal dolore, altre dal terrore, la risposta della coscienza prima ancora che della legge. In fenomeni come questi le spiegazioni di tipo antropologico non reggono più, quelle sociali men che meno e quelle psicologiche risultano del tutto insufficienti per dipanare la matassa dell’odio rivalità, il derby della vendetta straziante sulla montagna del sole. Perchè la vendetta è il baco uscito dalla mela del marcio, dal corpo morto di una cinquantina di uomini caduti sotto i colpi di killer e viaggiatori di un incubo. Ci si risveglia solo quando si è ripiombati dentro un <sonno>. L’impressione che balza più evidente è che nemmeno la chiesa in tutti questi anni abbia fatto molto per evitare questo riconoscimento da Medioevo, da zombie del terzo millennio a Monte Sant’Angelo, culla della cristianità, paese dell’Unesco. Con la faida tutto un paese finisce «imputato», sfregio ad una immagine da cartolina. Mezzo secolo di affari e paura, vendette e fughe. Intere famiglie dopo aver giocato a nascondino con il mondo si sono disperse: Nova Milanese, Milano e Torino Dusseldorf e Colonia. Famiglie spesso in versione sadomaso. Libergolis e Alfieri, Primosa e Miucci, Silvestri e Giovanditto, Tarantino e Ciavarella, Mancini, Romito. Affari e rivalità, odio profondo e lo spettro della delazione il sospetto di essersi venduti i soci agli sbirri e ai carabinieri il marchio dell’infamia e un destino crudele. Requiem per i boss scampati o ammazzati. Quante volte sono risuonate dolcissime e tese le note di Bach sotto le navate di una chiesa a Monte o a Manfredonia, Macchia e Mattinata, il triangolo della faida allargatosi a Vieste laddove i Notarangelo sembravano i rampanti di un ceppo sanguinario e intraprendente.

Sangue e preghiere nei tempii della fede tra odore acre d’incenso e figure che avevano rispolverato l’abito scuro in segno di rispetto, come avvenuto ai funerali di Ciccillo Libergolis o Romito. Sguardi e silenzi mentre dai microfoni spuntava il primo annuncio: <Signore, abbiamo tutti bisogno del tuo amore. Preghiamo. Dal Vangelo secondo Luca. In quel tempo Gesù disse ai suoi discepoli…>. Tutti dentro, tutti morti e sepolti gli attori e le comparse della faida, tetri messaggeri di memorie terribili vissuti spesso allo stato brado in una bolla d’aria di tempo e sofferenza, un passato da buttare e uno a breve scadenza. Ogni azione sotto la spinta di una trasposizione mentale. La mafia garganica sta per venderci un nuovo inizio?

Ernesto Tardivo