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L’amico Manzionna, le pretese di Bocconcino  e l’avvocato del Comune che dorme nella mia stanza

Non iniziò nel migliore dei modi: torcicollo miogeno a sinistra e tante sofferenze. Delle prime degenze ospedaliere ricordo benissimo i trascorsi al Policlinico di Bari, ospite infuriato della Clinica Ortopedica da me trasformata nell’Ostello della Gioventù di Sua Eccellenza Prof. Salarino.  Del primo intervento chirurgico, all’età di sette anni, ricordo i sacrifici dei miei genitori e le assenze dei miei nonni. Spesso mia madre mi lasciava solo in ospedale: lavorava e i miei fratellini bisognava accudirli. Quando ritornava, se ero in camera, mi trovava saltellare da un letto all’altro, inseguito dagli infermieri preoccupati delle ossa dei degenti. Capii subito che in Ortopedia il mio hobby non era praticabile: decisi per la cardiologia mettendo a dura prova le coronarie dei pazienti. Uscendo dalla sala operatoria vidi mia madre in pigiama. Pensai: “L’anestetico è allucinogeno”. In realtà anche lei era ricoverata; per problemi allo stomaco.  
Venti anni dopo, girovagando nell’Europa dell’Est, la strafiga receptionist dell’ostello mi chiese, in modo suadente, come se m’invitasse in un bordello: “Camera da quattro, da otto, o da dieci?”. Risposi, con occhi allupati (magari era veramente un bordello): “It’s up to you baby, I’m ready for all” (in questo momento il californiano Mau direbbe: “Che nirv!”); se avesse saputo, la strafiga receptionist, che avevo dormito nelle camerate dell’Ostello della Gioventù di Sua Eccellenza Prof. Salarino dall’età di sette anni, non mi avrebbe posto la sciocca domanda.
I medici e gli infermieri mi volevano un mare di bene. Spesso le infermiere del turno di notte si cucinavano gli spaghetti in gran segreto ed io non mancavo mai: ero il boss dell’Ortopedia e conoscevo il calendario segreto degli eventi. Le spaghettate erano organizzate dalle infermiere anziane, altro che il virtuale odierno di Meetic, deluse dalle fatiche della vita, e servivano a far incontrare in maniera informale e furtiva, e quindi sexy, le bellissime e giovanissime infermiere con gli affascinanti dottori che, con le bocche piene di pomodori sott’olio che la mia mamma portava da Vieste, cascavano come mele cotte di fronte alla vista delle lunghissime cosce delle candidate al matrimonio del turno di notte che si recavano al lavoro vestite come se dovessero recarsi al Ballo del Corpo dei Marines.
Di giorno ero una peste, un incubo per tutti. Scomparivo in continuazione. Mi conoscevano tutti, dai dottori del laboratorio analisi agli operatori ecologici. Entravo e uscivo dalla seconda Clinica Ortopedica a mio piacimento. A volte mi perdevo nell’immenso complesso ospedaliero del Policlinico di Bari. Mi rimproveravano di continuo ma io avevo un amico segreto, nel senso che l’amico, che io non conoscevo, non sapeva di avere una peste di amico di sette anni al Policlinico di Bari che spadroneggiava nei reparti dalla mattina alla sera. Era una star del firmamento, altro che Gianni Letta. Tutti si raccomandavano con i miei genitori di portare i saluti a Manzionna. Ed io, furbo, pensai: “Manzionna è l’amico che cerco da sette anni”. Manzionna rappresentava un passepartout per l’anarchico che c’era in me.
Appena entravamo in Ospedale, alle prime difficoltà burocratiche, mio padre li fulminava tutti con una delle seguenti frasi: “Sono amico di Manzionna”, “Ci manda Manzionna”, “Ho parlato con Manzionna”, “Vi porto i saluti di Manzionna”, “Vengo da Vieste, dal paese di Manzionna”; spesso bastava semplicemente pronunciare: ”Manzionna”. Ma Manzionna, il più delle volte, non sapeva niente; magari si trovava in Ospedale. Era un Padre Eterno. Un giorno andammo a trovarlo nel suo quartiere generale: il mio amico fu gentilissimo e disponibilissimo.
In fisioterapia conobbi una persona eccezionale, di straordinaria umanità, notaio o forse avvocato, magari lavorava in banca. Mi riempiva di doni e aveva sempre una parola dolce per me. Mi voleva bene. Indimenticabile. Un altro momento bello era quando la mia mamma mi portava le buonissime mozzarelle di bufala del posto. Il momento più atteso era sedermi alla panchina con vista sul porto, in attesa del pullman per rientrare a Vieste.
Non continuò nel migliore dei modi: recidiva torcicollo miogeno a sinistra. Sette anni dopo, l’elettrobisturi era pronto per tracciare un’incisione sulla pregressa cicatrice. Il nuovo busto ortopedico fu un incubo.
Il Centro Riabilitazione Padre Pio di Vieste svolse un ruolo centrale nella mia vita. Se un giorno lo chiuderanno, dovremmo tutti scendere in piazza perché è un’istituzione attenta ai bisogni dei più deboli.
          Da piccolo abitavo ai Quattro Palazzi, nell’appartamento oggi abitato dall’avvocato del Comune di Vieste Fusillo. Il quartiere dei Quattro Palazzi era considerato un luogo remoto e lontano dal centro del paese. La litoranea sulla spiaggia autorizzava a costruire sulla spiaggia, tra la battigia e le gigantesche dune di sabbia, poi distrutte per alimentare l’industria delle costruzioni, che ci proteggevano dallo scirocco. Sul lato sinistro, dove oggi sorge la rotatoria, una bellissima vigna dava dell’uva eccezionale.
D’inverno, il quartiere era abitato da sole cinque famiglie. I temporali regnavano sullo sferzare del vento mentre io passavo le notti ad assistere allo spettacolo dei lampi e dei tuoni che illuminavano l’Adriatico. I tubi della stufa alimentata a kerosene spesso si intasavano e la casa si riempiva di fuliggine.
D’estate, il quartiere era affollato come la capanna di zio Donato: diavoletti da tutta Europa rientravano a Vieste nelle case materne o paterne dei loro genitori, lasciate anni prima per sfuggire alla fame. L’appartamento dell’avvocato Fusillo era un bed and breakfast. D’estate, quando la capacità ricettiva alberghiera era molto limitata  e si partiva in vacanza senza prenotare, i miei genitori affittavano le tre stanze del bed and breakfast ai turisti, mentre noi dormivamo in cucina e sul balcone. Amavo dormire sul balcone o sotto il tavolo della cucina. Alle 7.00 dovevamo sparire da casa per lasciare la cucina alle colazioni dei turisti. Andavamo al mare, non rischiando l’insolazione. Spesso i turisti si svegliavano prima di noi ed erano le comiche. Socializzavo molto con i turisti che spesso ritornavano a trovarci negli anni successivi portandomi tanti regali. Casa mia era un manicomio e più di una volta pensai che i turisti preferissero il nostro bed and breakfast per via della mia simpatia piuttosto che per un letto matrimoniale. Spesso la mia mamma cucinava il pranzo e la cena per i fortunati ospiti. Ricordo un signore cinquantenne con una macchina favolosa che ogni anno soggiornava da noi con una fotomodella ventenne diversa dalle altre degli anni precedenti. La mia mamma era infaticabile: trasportava su e giù enormi quantità d’acqua prelevata dal pozzo artesiano; fortunatamente era aiutata dagli uomini del palazzo. Quando ritornava l’acqua, puntualmente l’appartamento dell’avvocato Fusillo finiva sott’acqua perché aprivo il rubinetto dalla vasca usata come serbatoio d’acqua.
D’estate, il Comune ci inviava una ruspa per pulire la spiaggia. In realtà, la ruspa riusciva nell’assurdo compito di dissotterrare i cocci delle bottiglie: dieci punti di sutura sotto la pianta del piede destro. Grazie al pronto intervento di Matteo D’Onofrio, il mio angelo custode, mi vidi sollevare, per poi ritrovarmi in viaggio verso l’ospedale di San Giovanni Rotondo su una macchina di cui ricordo soltanto il fazzoletto bianco, usato per contrassegnare le macchine private adibite ad ambulanze (le ambulanze dell’artigianale ambulatorio di Vieste erano poche), e il rumore infernale del clacson. Sul tavolo operatorio, accolsi il primo infermiere che si avvicinò con un poco simpatico: “Che stà facen’ chyttemù”. Lui: ”Sei un marocchino” (per via dell’abbronzatura). La mia replica: “vattìn chyttemù”. Si vendicò svolgendo il suo lavoro con calma certosina: mi tolse le bende insanguinate e sporche di sabbia ed io incominciai a gridare come un forsennato attirando l’attenzione della fotomodella che dà lì a pochi minuti avrebbe fatto l’ingresso nella sala operatoria e la mia felicità. Non volevo farmi toccare; ben presto le mie ritrosie scomparvero alla vista della dottoressa fotomodella: anestesia parziale, tre ore di intervento e piede salvato. Rientrato nel reparto di Ortopedia, dove avrei scontato quindici giorni di immobilizzazione a letto, vidi l’abbronzatissimo Matteo D’Onofrio oggetto di mille sguardi. E’ come se i degenti e il personale medico e infermieristico avessero di fronte uno yeti: alto, barba, capelli sciolti e lunghi, pelle scurissima, abbigliamento da spiaggia. Chissà che idea si erano fatti di noi due e di Vieste. In questo momento Matteo sta giocando al pallone nel campo del Signore. Arrivò il momento di uscire: stivaletto in gesso da quarantacinque giorni  che io invece avrei distrutto in tre settimane. Prima di lasciare l’Ortopedia dell’Ostello Casa Sollievo della Sofferenza, la dottoressa che mi aveva ricucito scrisse il suo nome sul mio stivaletto di gesso, seguita da tutte le dottoresse del reparto. Cool.   
Il piccolo era piccolo, il grande era grande, e il mezzano lo prendeva nel sedere. Io ero il mezzano. Dovevo dare l’esempio a Fausto, dovevo prendere l’esempio da Michele. Fortunatamente Fausto non mi prese ad esempio altrimenti sarebbe diventato un pregiudicato. Michele era il favorito di papà, fino alla nascita di Fausto. I miei fratelli erano coccolati, ma io sapevo come mettermi in mostra e ristabilire le gerarchie: con una cazzuola ruppi subito il braccio di mio fratello Michele, da cui avrei dovuto prendere l’esempio.
Da piccolo ero un bandito, il più bandito di tutti. Gli inquilini del mio palazzo intuirono subito il carattere anarchico che mi possedeva.
A tre anni attentai alla vita di Giulietta Raspatella in D’Onofrio, la mia tata del primo piano, persona straordinaria, di grandissima fede cattolica. In esclusiva per voi, i fatti sono raccontati dal protagonista assoluto. Giulietta Raspatella, come da abitudine, si fermava ogni mattina a parlare con la bravissima e comprensibilissima Giulietta, la moglie di Peppino Cappabianca (erano altri tempi quando le persone s’incontravano per strada e socializzavano: la povertà sapeva d’umanità). Era presto e poteva essere l’ultima alba per le due donne e l’inizio dell’infernale incontro con mia madre. All’improvviso, i quaranta centimetri che dividevano le due amiche fu attraversato e riempito dalla paletta di ferro in caduta libera dal terzo piano. Ho rischiato seriamente di ammazzarle di paura con una paletta di ferro.
Il lancio del pisciaturo mi riempiva di gioia e coincideva con le maledizioni di mia madre, prontamente chiamata dagli inquilini di sotto alle prese con la mia cacca caprina mista all’urina che ricopriva i panni stesi. I passanti, in ogni caso, se avessero potuto scegliere, avrebbero espresso una leggera preferenza verso il piasciaturo poiché la bottiglia di vetro dell’acqua Sangemini lasciava dei segni sul cuoio capelluto.
A cinque anni usavo il ponteggio dei muratori per salire a casa; rubavo l’impossibile e ricordo che in un’occasione collezionai subito una quantità incredibile di attrezzature usate nell’edilizia; mi adottarono, mi fecero partecipare alla preparazione delle malte con le pale e io restituii il maltolto. Rubavo ai fruttivendoli, ai bagnules, al mattinatese (mozzarelle, sottilette e latte), a mio padre e facevo la cresta sulla spesa che mia madre mi commissionava.   
Ero specializzato in incendi: per ben tre volte tentai di incendiare il bed and breakfast attrezzato come una caserma dei Vigili del Fuoco. Una volta, mentre tentavo di sciogliere le candele nel pentolino del latte, incendiai la cucina di mia madre, le pentole e rischiai di farmi male. Avevo capito la tattica dei miei genitori: avevano sempre gli occhi puntati su di me. Occorreva escogitare un espediente per incendiare la casa dei miei genitori: decisi di correre per la casa; all’improvviso mi fermai e incendiai la tenda del soggiorno. Che fiamme ragazzi! I miei in quell’occasione si chiesero ad alta voce se fossi figlio loro e soltanto il ricordo del parto in casa mi salvò dal dubbio dello scambio di culla.
A quattro anni aprii la porta di casa. Ero pronto per socializzare con gli amichetti del quartiere ma gli inquilini non erano ancora preparati alle grida di mia madre che dal balcone mi supplicava di fare il bravo. Quando i giochi non erano di gruppo, il serial killer che c’era in me preferiva le lamette, che prendevo in prestito da mio padre, per sfregiare le gambe delle graziose bimbe.
Fuori onda di Capodanno 2011, ore 20.00; dalla cornetta esce una filastrocca: “Curnutazz che state facendo?”. E’ mia madre, dalle vacanze emiliane. Quand’ero piccino mia madre mi raccontava spesso strane storie di omicidi e di lupare bianche. Le vendette armate non riuscivano ad affascinarmi. Preferivo raccogliere per strada i cuccioli di cane abbandonati e salvare i pipistrelli  e le rondini.
Carmine era davvero un antipatico. Chiedo a mio fratello il cognome di Carmine. Mi risponde: “Bocconcino”. Aveva la pretesa di parcheggiare sotto il balcone di casa sua, in mezzo al nostro improvvisato campo di calcetto. Immaginate quante pallonate indirizzavo alla sua macchina. Non potevo esagerare perché d’inverno la sua macchina era utilissima per accompagnare me e i miei fratelli a scuola in quanto quella di mio padre era totalmente inaffidabile. A volte, nel pomeriggio, mentre Carmine riposava, centravo con il pallone la sua finestra e apriti cielo. In realtà volevo centrare il portone del palazzo e svegliare tutti gli inquilini impegnati nel riposino pomeridiano. Quando volevo rompere le scatole a tutto il quartiere, non mi restava che centrare le saracinesche dei garage. In fondo Carmine mi voleva bene. Amavo colpire le finestre, preferivo molto anche quelle di Pietro D’Onofrio, perché era sempre severo con me ma anche lui mi voleva molto bene. Non dimenticherò mai l’ultimo tè di Pietro, preparato da mia madre. Tutti mi volevano bene. Maria Gaetana era la tata del cuore del pianerottolo. Quando la mia mamma mi voleva picchiare (chissà perché), chiedevo asilo a Maria Gaetana che mi preparava sempre da mangiare, mi dava i dolci e mi raccontava le favole. Rimproverava sempre mia madre: “Ai figli bisogna baciarli solo di notte”. Preferiva: “I figli devi affogarli quando nascono” ma poi mi dava i dolci.
Peppino Cappabianca, Carlo Fasani e Pietro Santoro (ma Carlo è vivo) sarebbero diventati degli esempi di vita per me. D’inverno, quando faceva freddo, i ricordi più belli nascevano nella casa di Giulietta Raspatella i cui figli mi volevano tremendamente bene. Conveniva fare il bandito. Quando la mia mamma si ricoverava, io mi trasferivo da Giulietta e diventavo la star assoluta.
A cinque anni decisi da capotribù. Ero pronto per uscire dal quartiere. Iniziai subito con il furto delle buonissime arance coltivate nel fondo agricolo alle spalle delle dune di sabbia. Bisognava attraversare il canneto e il tipo era armato ma non sparò mai un colpo. Un giorno, dopo l’ennesimo furto, fece irruzione nel quartiere con il trattore e accusò, sulla base di una presunta somiglianza (!), l’innocente fratello Michele, che si trovava sempre al posto sbagliato e al momento sbagliato. Io, sul balcone di casa, prima del diluvio di mazzate che mi avrebbe travolto subito, mangiavo le arance e mi crepavo dalle risate. In quella circostanza arrivarono addirittura i Carabinieri e Carmine l’antipatico aiutò me e i miei amici a farla franca. Che avventura e che arance!
Con la mia banda rubavo i canotti lasciati sulla spiaggia dagli incauti proprietari, per rivenderli la settimana successiva; purtroppo le vacanze erano lunghe e spesso rivendevo i canotti ai legittimi proprietari che si crepavano dalle risate ma poi mi compravano un gelato e facevo amicizia con i figli. Nei giorni successivi mi offrivano altri gelati, forse per paura che io rubassi di nuovo i canotti dei figli. Anche gli altri villeggianti, venuti sicuramente a conoscenza dei miei furti,  mi offrivano i gelati. Capii subito che tramite il furto di un solo canotto potevo, grazie alla magia del passaparola, mangiare gelati per tutta l’estate. Gratis.
Quando il mare si riempiva di piccole meduse di color rosa, la Baia degli Aranci diventava il teatro dei miei furtarelli; mi piaceva manomettere le cabine telefoniche per ricavare i gettoni incastrati con le cicche di sigaretta. Spesso mi spingevo nelle tende; il servizio d’ordine era discretamente efficiente ma io ero più furbo dei vigilanti e per ingannarli mi travestivo da turista.
A sei anni mi aggregai ai capelloni dei falò. Ero pronto per la spiaggia di sera. Mi incuriosivano le coppiette che puntualmente, intorno alla mezzanotte, si infilavano sotto le barche capovolte e uscivano dopo un paio di ore contente e soddisfatte. Decisi di indagare. A modo mio. Aspettai che una coppia fosse sotto la barca capovolta e silenziosamente chiusi con un asse di legno l’ingresso. Subito dopo incominciai a saltellare sulla barca; dopo dieci minuti di panico (loro), liberai l’ingresso e vidi uscire gli amanti sbiancati dalla paura. Che emozione! I campeggiatori capelloni accampati sulla spiaggia capirono subito che per evitare l’assalto dei predoni e del loro capo (io) bisognava farmi partecipare ai piaceri della vita: ero troppo piccolo per il sesso, liberissimo alla vigilia della pandemia dell’Hiv, per la droga, e per l’alcool. Decisero per me e io decisi per gli altri: t’rnìs.
La sera, i muretti che si affacciavano sulla strada erano il mio regno. Fiumi di turisti si recavano a ballare alla discoteca Il Castellino dove, secondo una terminologia che rifletteva il disprezzo dei locali verso i turisti, i ‘nganguler, i sal’pes, i bakòng, i kames e i skuppet quaquagghyàvan, anche se spesso dovevano accontentarsi della r’f’tugghy. Kukkues e ckrfòn si drogavano e facevano l’amore sulla spiaggia. In realtà a me il posto piaceva molto, era frequentato da un mare di ragazze e molte volte accompagnavo i turisti nella kal’ter del Castellino; spesso mi chiedevano di droghe e ragazze facili e io soddisfavo tutte le loro esigenze, spingendomi fino al centro storico dove la droga si vendeva a t’ler. Per i t’rnìs ero disposto a procacciare clienti alle meretrici e agli spacciatori. In più di un’occasione i poliziotti dell’antidroga mi chiesero informazioni su dove acquistare della droga. Volevano rompere il miosukarìdd. Risposi: “Belli (ma non erano proprio ben lavati e vestiti), aria”. Per soddisfare le due settimane di vacanze estive del figlio, il proprietario di casa, Ina Casa, ci cacciò per una firma di troppo di mio padre, grazie alla complicità del nostro avvocato, che non morì nel letto. Sono tutti morti, che Dio abbia pietà di loro. Arrivò il tempo di cambiare casa e iscrivermi alle Superiori. Si chiudeva un’epoca.
A quarant’anni, il Certificato dei carichi pendenti è immacolato.
Vent’anni dopo, sullo stesso lungomare che mi aveva visto protagonista da piccolo, proprio di fronte al Castellino, fui l’unico a prestare soccorso al malcapitato di turno deceduto in mezzo alla strada, evitato da troppe macchine i cui conducenti non prestarono soccorso.
L’infanzia vissuta con i tantissimi amici a giocare nel quartiere, la contaminazione con i turisti a casa, in spiaggia e alla Baia degli Aranci, le esperienze negli Ostelli della Gioventù, a Bari prima, a San Giovanni Rotondo dopo, l’amico segreto Manzionna, l’affetto dei residenti dei Quattro Palazzi, le mie tate Maria Gaetana e Giulietta, il mio angelo Matteo, l’antipatico Carmine, le figlie di Peppino Cappabianca, Carlo Fasani e Pietro Santoro, hanno sicuramente influito sulla mia personalità.
Durante i miei trascorsi ai Quattro Palazzi, la pandemia dell’Aids/Hiv stava scrivendo la sua storia fatta di croci e avrebbe modificato consolidati stili di vita in breve tempo. I decessi per overdose da eroina, i mortali incidenti dovuti all’uso dell’LSD, gli altri effetti nascosti e collaterali di quell’epoca.
Venticinque anni dopo, nella società dell’iPhone e dell’iPad, ritrovai l’anima ribelle che c’era in me nei bambini delle famiglie neozelandesi e polinesiane che avevano trasformato le loro proprietà in ostelli. Quando mi prendevo cura di loro, in cambio dell’ospitalità e dei pasti principali, i loro genitori erano sorpresi e increduli del feeling che si creava tra di noi. Se avessero saputo della mia infanzia! L’ultima volta mi presi cura di un monello alle prese con la tavola da surf sulle onde del Pacifico. Immaginatemi in acqua su una tavola da surf e le risate del monello! E’ indubbio che gli spazi giochino un ruolo fondamentale nella crescita di ognuno di noi, nella personalità e nella qualità delle relazioni personali.
Rivivo la gioiosità di stare insieme, di dividere momenti di grande felicità, di benessere, quando sto con Maurizio Tangari. Le feste organizzate dal padre, i viaggi di Maurizio e lo sport da lui praticato, hanno sicuramente plasmato il suo carattere. Delle sue donne non dovrei parlarne. Mi permetto soltanto di raccontarvi una scena da film girata quando io non conoscevo Maurizio e Maurizio non conosceva Stefania: il locale è pieno di bella gente, io sono seduto al bancone a sorseggiare una birra; improvvisamente entra Maurizio con gli amici del surf e si siedono su una panca libera: dopo due secondi quella stessa panca è felice di dare ospitalità ai glutei di una bellissima ragazza che si presenta con due boccali di birra e inizia il corteggiamento fatto di soli sguardi (la musica era troppo alta). Mi distraggo un attimo e li ritrovo avvinghiati sul tavolo. Mi distraggo nuovamente e li ritrovo sotto gli ulivi: senza bulgarian bag.     
Quando Pierino l’affittacamere con la sua lambretta rientrava dall’Hotel degli Aranci era particolarmente felice perché la famiglia Manzionna e il suo direttore erano molto generosi. Mio padre procacciava in mezzo alla strada i turisti più esigenti per portarli all’Hotel degli Aranci. Alle mance del cliente si sommavano i riconoscimenti monetari dell’amico segreto Manzionna che permisero a mio padre di sfamare la famiglia.
Il mio animo inquieto ha preso le sembianze delle parole.  
 
Buon 2012.     
 
Lazzaro Santoro