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“De Vico “, poemetto di Carlo Pinto di inizi ‘600 torna alla luce grazie a Marco Trotta

 

“Vico è posto in un ameno colle del Gargano che guarda a nord nelle immediate vicinanze del mare Adriatico”. Sono queste le parole di commento poste all’inizio di un’opera antica,  scritta in latino e risalente agli inizi del 1600, che tesse le lodi del paese garganico. Si tratta di un poemetto di 432 versi in distici elegiaci (alternanza di esametri e pentametri), scritto dal prelato Carlo Pinto, vissuto tra la fine del 1500 e la prima metà del 1600. Il titolo per intero “ De Vico Garganico Apulorum opido Caroli Pinti elegia” ci informa sul genere dell’opera, l’elegia.

Il ritrovamento si deve ad un insigne studioso di storia locale, Marco Trotta, originario di Monte Sant’Angelo, che lo ha riportato alla luce dopo una ricerca condotta nella Biblioteca della Società Napoletana di Storia Patria. Trotta, traducendo e commentando sapientemente i passi salienti del poemetto e fornendo notizie biografiche dell’autore, ha dato alle stampe “De Vico Garganico: un poemetto di Carlo Pinto” ( Puglia Grafica Sud, Bari 2013). Carlo Pinto, nato a Salerno nel 1582, dopo aver vestito l’abito dei carmelitani, fu nominato da Paolo V vescovo titolare di Cuma e successivamente vescovo di Nicotera. Non si hanno notizie documentate, invece,  sui suoi soggiorni a Vico che probabilmente ha conosciuto nel periodo giovanile.  L’elegia,termine che, se si accetta una delle possibili interpretazioni etimologiche, significa” ben dire” (dal greco eù lègein), celebra, appunto, in versi corredati da un consistente apparato di note a commento, le amenità del bel paese garganico;  verso la fine del componimento sono presenti anche brevi informazioni su Rodi, Ischitella, Monte Sant’Angelo e sulle isole poste di fronte allo sperone, Tremiti, Pelagosa e Lissa. Si tratta, insomma, come in un climax ascendente, che culmina appunto con Vico, di una  apologia delle bellezze e della piacevolezza della vita che offriva il promontorio al visitatore. I primi versi contengono la dedica rivolta a Paolo Regio, vescovo di Vico Equense, definito “ oratore ed espertissimo dell’arte poetica e della sacra teologia”. Pinto inizia il canto menzionando la sua “Vicana Domus Garganica”, una casa, quindi, a Vico del Gargano, immersa nel lucore della neve e  sostiene che mai nessuno ha rivolto lodi pur meritate a questo paese. Nelle note cita il gran numero di abitazioni e la ragguardevole ricchezza dei suoi cittadini. Si trattava di un borgo  popoloso, infatti secondo le fonti dell’epoca contava più di 2500 abitanti ed era, per numero, il maggiore del Gargano,  benestante e culturalmente evoluto in un periodo storico in cui dominava l’arretratezza economica e sociale. E’ presente una bella descrizione dello stemma: una rocca di tre torri, con un albero di mela medica carico di pomi d’oro posto al di sotto; il campo superiore è di colore azzurro, quello inferiore di color argento perla. Tornando al canto, l’autore chiama il luogo Vico Garganico o anche Sipontino e nomina il governo sotto la cui egida è posto, quello del Marchese Traiano Spinelli. E’ evidente l’intento encomiastico del prelato verso questa famiglia e, infatti, ritorna altre volte sulla stessa per tesserne le lodi, “ Qui sotto la giurisdizione di Traiano, vige il decoro insieme alla pietà”. Gli Spinelli erano i discendenti della casata dei Caracciolo che avevano acquistato il feudo di Vico nel 1496 e che, come ci informa l’opera dello storico Gennaro Scaramuzzo (G. Galeazzo Caracciolo, Lucera 1995), passò agli Spinelli nel 1592 perché, in mancanza di discendenti maschi da parte del marchese Colantonio Caracciolo, la sorella di quest’ultimo, Maria, aveva sposato Traiano ( o Troiano) Spinelli.  Il componimento  contiene informazioni sulla flora, la fauna, sui prodotti agricoli, sulla caccia e sulla vita cittadina di Vico. Si apprende che il bel paese garganico produceva un vino, il vicano, e che soprattutto veniva apprezzato il “mero di Calena” che si beveva puro, senza aggiunta di acqua. Il miele aveva un posto di primo piano nell’economia locale in quanto veniva esportato fino alle città dell’ Illiria. Si fa riferimento anche ad uso medico del prodotto che, mescolato a vino riscaldato, calmava i bruciori di stomaco. Ovviamente non manca il riferimento all’olivo e all’estrazione dell’olio che serviva per l’illuminazione e per il condimento dei pasti. Un’apposita sezione, poi, viene dedicata alla caccia da cui si evince che il territorio era ricco di lupi, istrici, tartarughe, daini, cervi, lepri, furetti, faine, volpi, linci feroci, donnole, ghiri, ricci, cinghiali.
Tra gli uccelli vengono citati i colombi, le tortore, i beccafichi, le rondini, gli usignoli, i tordi, i cuculi, i merli, le pernici, le anatre selvatiche tutti preda degli uccellatori vicani.
La carrellata della ricchezza naturale del posto annovera anche una serie di erbe e piante aromatiche e mediche tra cui spiccano le piante officinali ( ben 22) e alberi di mele mediche ( il cui frutto è presente anche sullo stemma ), di cedri color oro e di limoni africani. Ciò che aggiunge fierezza al paese è sicuramente la descrizione della comunità cittadina che era caratterizzata dalla misura, dalla competenza e soprattutto dall’onestà: “Qui governa un giusto ed integerrimo tribunale, dal quale sono estranei l’inganno e la collera. Qui tra i cittadini fiorisce una concorde collaborazione…Ci sono quelli che insegnano al popolo i divini comandamenti…Qui ci sono anche giureconsulti ed avvocati esperti grazie ai quali sono condotte spesso cause con esito favorevole. Qui ci sono speziali che con perizia preparano le medicine prescritte per i malati e ci sono medici che ordinano farmaci adatti. I maestri qui godono per la ricompensa offerta loro dai fanciulli. In nessun altro luogo se non a Vico sono apprezzati di più quelli a cui non viene meno l’onestà dall’animo e dalla bocca”. Infine vengono elencati, e con questo si chiude l’elegia del paese, i mestieri tipici : vasai e fabbri ferrai, tornatori e distillatori, orefici e pittori, pastori e aratori, istruttori di palestra e musicanti. Viene fuori il quadro di una società multiforme, ben organizzata, ispirata da sani principi, felice per posizione geografica e ben governata, una sorta di età dell’oro che, al di là delle buone intenzioni dell’autore dettate molto probabilmente dalla volontà di attirarsi la benevolenza del signore del paese e delle alte sfere ecclesiastiche, come in uso tra gli intellettuali di  quel periodo storico, tratteggia una memoria storica abilmente lumeggiata da Marco Trotta che, con la passione e la bravura che lo caratterizzano, ha riportato alla luce l’elegia.
Antonella Scaramuzzo