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INSORGENZA E BRIGANTAGGIO ANTIUNITARI IN CAPITANATA. 1a Parte

La causa della rovesciata monarchia trova immediatamente dei sostenitori in ogni angolo della Capitanata. Ora il nemico è al potere e lo scontro diviene aperto e violento. In verità, tale scontro, latente nei mesi di luglio ed agosto, avendo assunto a volte forme violente in alcuni paesi, ora trova maggiori ragioni per diventare più radicale.

Chi sono gli uomini legati alla rovesciata monarchia delle Due Sicilie? Gli esponenti delle gerarchie ecclesiastiche, il clero diocesano, i vecchi dirigenti ed i funzionari governativi licenziati (giudici, cancellieri, ricevitori delle imposte, capi urbani e gendarmi, veterani, stipendiati e pensionati dello stato) ed anche possidenti terrieri lealisti che non hanno effettuato il trasbordo ideologico dei galantuomini. Con loro, per scelta naturale e non di convenienza, vi sono le masse rurali che già hanno dato un assaggio della loro potenzialità aggressiva. Il Re, che resiste da Gaeta, è un incitamento a combattere per liberare il regno dall’occupazione garibaldino-piemontese e dai suoi sostenitori. La rivoluzione unitaria è sempre un evento eversivo agli occhi dei lealisti e ciò induce a far prevalere le ragioni dell’insorgenza. Sino all’uscita del re da Napoli, le rivolte della Capitanata, come quelle delle restanti regioni del Sud, sono state istintive; ora assumono un nuovo aspetto perché costituiscono la risposta del paese reale al legalismo filounitario.Dalla fine di settembre in tutta la Capitanata si ripetono manifestazioni in sostegno di Francesco II. Ad Apricena, la sera del 28 settembre, si raccoglie una moltitudine di persone che, gridando “Viva Francesco II, a morte Garibaldi”, percorre il paese. Interviene la Guardia Nazionale che disperde circa 500 persone, procedendo all’arresto dei capi. Una manifestazione dello stesso genere si svolge il 30 settembre nel comune di San Marco la Catola. Vengono arrestati 8 uomini del posto. Lo stesso giorno si solleva Monte Sant’Angelo. Segue l’esempio il vicino villaggio di Mattinata. Il popolo calpesta e brucia i quadri di Garibaldi e Vittorio Emanuele. Destituisce le autorità civili e militari e, secondo le leggi delle Due Sicilie, ricostituisce la Guardia Urbana. Accorrono i dragoni che arrestano 47 capi della rivolta. Ai primi di ottobre è la volta di Peschici ove l’insorgenza è soffocata dalla Guardia Nazionale di Vieste accorsa tempestivamente, unitamente alla colonna mobile Garganica, un raggruppamento armato costituito da una settantina di uomini e comandato da Vincenzo Tondi di San Severo e fortemente voluta dal nuovo governatore della Capitanata, Del Giudice, per reprimere le insorgenze del Gargano. E’ la volta di Vico. Si comincia a notare che un po’ dovunque, a capo delle rivolte vi sono i cosiddetti “soldati sbandati. Costoro sono i giovani chiamati alle armi nell’esercito delle Due Sicilie. Quando i reparti sono stati sciolti, in seguito al crollo dell’esercito regio, essi sono stati rimandati alle proprie case. Nei loro cuori vi è la consapevolezza di quanto sta accadendo. Avrebbero voluto combattere, ma non ne hanno avuta la possibilità. La minoranza che è riuscita ad essere presente sul Volturno, in quei giorni sta dando prova di coraggio, lealismo e sincero eroismo, anche se quest’ultimo valore non è mai stato riconosciuto dalla nuova Italia. A Vico, 4.000 persone scendono in piazza gridando, come altrove, “Viva Francesco II, a morte Garibaldi” e bastonano alcuni malcapitati che portavano sul petto la coccarda tricolore.A San Marco in Lamis, il 7 ottobre le autorità proibiscono la processione della Madonna del Rosario per paura di un tumulto popolare. Ma ciò che non avviene al mattino, avviene alla sera. Un gruppo di bambini, sventolando fazzoletti bianchi che ricordano la bandiera biancogigliata delle Due Sicilie, percorrono le strade del paese. L’innocente corteo si ingrossa con uomini e donne. In breve è l’insorgenza. La Guardia Nazionale abbandona il corpo di guardia e fugge dal paese. Gli insorti si impossessano delle armi, distruggono le suppellettili e le bandiere e rimettono ai loro posti i ritratti di Francesco II e Maria Sofia. Nelle movimentate ore dell’insorgenza è ferito mortalmente il sarto Angelo Calvitto, di sentimenti liberali, reo di non aver voluto gridare viva il re. Ma il giorno dopo una forza mobile si concentra a San Giovanni Rotondo per stroncare l’insorgenza.Simultaneamente manifestazioni di legittimismo avvengono ovunque, anche fuori dal Gargano ed in tutta la Daunia. A Casaltrinità, l’odierna Trinitapoli, il 6 ottobre si sparge la voce che Francesco II è tornato a Napoli. Il popolo, abbandonate le campagne piene di gente per la vendemmia, percorre le strade cittadine gridando “Viva Francesco II”. Sedata l’insorgenza, vengono arrestate sette persone.
La sera del 7 ottobre a San Paolo di Civitate una massa di uomini e donne, munita di scuri e di bastoni, preceduta da Michele Meschiti che porta una bandiera bianca, va gridando per il paese “Viva Francesco II”. Viene assalito il corpo di guardia, abbattute le nuove insegne e ripristinati i ritratti dei sovrani napoletani. Negli scontri che seguono muore Giuseppe Alberino che si era schierato con i liberali. L’insorgenza viene domata dalle Guardie Nazionali accorse da San Severo. A Biccari avvengono fatti più gravi. Dal 14 al 16 ottobre si sviluppa una sommossa organizzata da alcuni soldati napoletani sbandati, rientrati alle famiglie. Essi scendono in piazza seguiti da molti popolani. Gridano “Viva Francesco II” e sono muniti di armi da fuoco. Una pattuglia della Guardia Nazionale cerca inutilmente di disperderli. Ormai padroni del paese, iniziano a vessare i galantuomini locali. E’ devastata la bottega del sergente della Guardia Nazionale Francesco Tummolo; è poi la volta dell’abitazione di Pasquale Pescrilli, un negoziante che aveva alzato i prezzi nell’ultimo rigido inverno trascorso. Il giorno seguente, temendo il sopraggiungere della Guardia Nazionale, si rinforzano le difese del paese. Il giorno 16 le autorità liberali della Capitanata ingiungono il disarmo, ma tutto è inutile. Il giorno 17 trascorre tranquillo. Il 18 si parlamenta nel bosco di Santa Maria. Il giorno 19 il procuratore del re entra in Biccari e provvede al disarmo e all’arresto dei fautori della sommossa.
IL PLEBISCITO: in questo clima, che assume tutti i connotati del momento politico preinsurrezionale, si giunge al plebiscito. Con decreti dei giorni 8 e 11 ottobre del profittatore Pallavicino, si fissava il plebiscito per le province continentali dell’Italia meridionale per la domenica 21 ottobre. Il popolo che aveva formato il regno delle Due Sicilie doveva accettare o respingere con un “SI” o con un “NO” la seguente volontà: “Il Popolo vuole l’Italia una e indivisibile con Vittorio Emanuele, Re Costituzionale, e suoi legittimi discendenti”. Il voto doveva essere espresso su una scheda prestampata raccolta in tutti i comuni da apposite giunte composte dal Sindaco, dal Decurionato e dal Comandante della Guardia Nazionale. Il 17 ottobre, in ogni centro abitato si affiggono le liste di coloro che, avendo 21 anni e trovandosi nel pieno godimento dei diritti civili e politici, dovevano intervenire al plebiscito. Il plebiscito si svolge in un clima fortemente fazioso. Il voto non è assolutamente segreto perché chi votava per il “SI”, vale a dire per l’annessione delle Due Sicilie al Piemonte, doveva inserire la scheda nell’urna dei “SI”, chi rifiutava l’annessione doveva mettere la scheda nell’urna dei “NO”. L’arbitrio era stato voluto dal governo piemontese. Infatti l’articolo 4 del decreto 8 ottobre 1860 stabiliva che tre urne dovevano essere poste su un tavolo. Una delle quali, vuota, nel mezzo e le altre due, piene di schede, ai lati. Una conteneva le schede di carta bianca col “SI”, l’altra le schede di carta rosea col “NO”. L’elettore, accettando o respingendo la formula plebiscitaria, doveva estrarre la scheda da una delle due urne laterali, deponendola in quella di mezzo.Domenica 21 ottobre, giorno del plebiscito, in molti comuni della Capitanata, i comitati legittimisti riescono a promuovere violente manifestazioni che impediscono la legalizzazione del regime unitario. Non si vota nei comuni di Accadia e Castelfranco; a Poggio Imperiale e a Panni si hanno maggioranze contrarie all’annessione; ad Ascoli Satriano su 1210 aventi diritto al voto, si recano alle urne in 528 e a Roseto in 63. A San Marco in Lamis nessun elettore si presenta alle urne per cui il plebiscito non ha luogo. A Cagnano scoppia una violenta sommossa popolare ed il plebiscito non ha luogo. A San Giovanni Rotondo i soldati sbandati organizzano una sommossa e riescono ad impedire lo svolgimento del plebiscito. Negli scontri che seguono muoiono 22 “galantuomini”.Il 29 ottobre, a Foggia, nel clima insurrezionale descritto, sia pure a grosse linee, una giunta provinciale procede all’apertura delle schede dei comuni di Capitanata che hanno portato le urne. Si verbalizza che mancano le urne dei comuni di San Giovanni Rotondo, S. Marco in Lamis, Cagnano, Accadia e Castelfranco. Ma in quei giorni, sedate le rivolte, si vota anche in questi comuni per cui alla fine delle operazioni la Capitanata esprime i seguenti voti: 60.062 per il “SI” e 1005 per il “NO”.

A cura di:
Michele Lopriore
Ass. Sentimento Meridiano