Menu Chiudi

Rodi – DOMENICO SANGILLO CI HA LASCIATO

 

Domenico Sangillo non è più tra noi.  Il suo cuore si è fermato ieri notte, a due mesi e mezzo dalla morte della sua amata Elena, compagna di una vita spesa interamente per l’arte. Non ce l’ha fatta a festeggiare da solo il suo 94° compleanno …

Sangillo era nato a Rodi Garganico il 29 gennaio del 1922, in quel Gargano che, con la sua naturale tavolozza mediterranea, da sempre fu un magnetico polo di attrazione per i “maestri del colore” italiani e stranieri.
Ma lui dal Gargano aveva deciso da giovanissimo di trasferirsi a Roma; fu dalla capitale che, divenuto uno degli artisti più significativi del “tonalismo” romano che faceva capo a Mafai, Scipione e Lazzaro, lanciò l’immagine dello Sperone in tutta Italia.
E’ sempre il Gargano ad attrarlo come un ricordo atavico, una necessità del sangue: dopo molti anni vi ritorna, e, finché ne ha la forza, continua a dipingere suggestivi olii su tela, con fulmineo tocco, quasi che l’improvvisa “illuminazione” gli possa sfuggire, come acqua tra le dita aperte. Scaglie di colore, fuso e sovrapposto a creare un tipico fermento, vibrazione, lievitazione. L’atmosfera soffusa è creata dalla magia del mezzo tono. Eppure il colore trionfa in ogni tela con alternanze di toni ora tenui, ora violenti, sempre vitali.

«I ritmi melodici che formano la vasta sinfonia dei quadri di Sangillo – osservava Milo Corso Malverna – sono come una musica in sordina, un magico coro a bocca chiusa». Rocce, lago e cielo non hanno bisogno di essere amati, lo sono già da tempo immemorabile… La sua Terra gli si presenta nella sua essenza ancestrale: “Gargano eterno: Carsico cetaceo, / mistero / dei remoti universi. Un ricordo antico lo lega alla sua Rodi lambita dal grecale: In cima / al Talero / una casetta vetusta, / dove si accapigliano / i venti di mare, / dove inerti / marciscono / le foglie del castagno, / dove, sbiaditi / dimorano / i miei giuochi / di un tempo”.
Sangillo amava le atmosfere brumose. Il Varano diventerà il suo rifugio. Qui, gli era possibile «addormentarsi e svegliarsi in un capanno, avvertendo il sommesso respiro del lago»: “Gocce di luna / smerlettano la giuncaia. / Un leggero zeffiro / soffia sul lago, / mentre eco dei pescatori / si perde nel gorgo del mistero”.
Lunghe notti passate nell’attesa del giorno, a osservare il Firmamento: “Cade una stella; / nel tempo della sua scia / si dissolve la mia memoria. Una vita segnata da quotidiani incroci tra la vita e la morte: Due usci contigui: / un tocco rosa / un drappo nero. // Incontro / di inesausti / viandanti”.
Una sofferenza rinnovata da ricordi che non lasciano varchi: “Lapilli / di ricordi / ardono / nella memoria, / or che / martoriata / cerca / requie”.
Ma il vitalismo dell’artista continua a ispirargli “palpiti” di vita profondi. La forza di Sangillo è proprio qui. E continua, ogni giorno, ad emozionarci, come in questa lirica d’amore: “Vorrei spandermi / dentro di te / come acqua / tra le rocce, / lambire / i granelli del tuo mistero; / ma tu / sei / chiarore lunare, / ove scivola / il mio tempo”.

Fin dalle prime “personali”, Domenico Sangillo viene definito come  un artista «dal singolare estro», che fa rivivere nelle sue tele le innumerevoli e selvagge bellezze del Gargano e della campagna romana, in un tenue distacco dalla realtà contingente. La suggestione estetica, prodotta dallo spettacolo della natura e dall’eleganza e dalla raffinatezza di un ambiente carico di memorie storiche e di opere d’arte, funge da impareggiabile sfondo alla sua produzione.
Proprio a Roma vive la stagione più feconda della sua parabola artistica, proponendo le sue tele, oltre che nelle Quadriennali e nelle mostre di rango, nelle rassegne “en plein air” della Montmartre italiana: Via Margutta. La “Strada degli artisti”, negli anni della “dolce vita”, diventa due volte all’anno una «parata di arcobaleni», illuminata a giorno nelle suggestive notti di giugno. Nelle cronache romane di “Il Tempo”, in quelle tiepide serate «è tutta un fantasmagorico quadro, formicolante umanità a coriandoli, dentro la cornice di tetti che si rincorrono da Trinità dei Monti al Pincio». Sino a notte fonda, uomini e donne di tutte le età e tutti i gusti, anche di nazionalità estera, si incontrano e si scontrano negli apprezzamenti e nelle polemiche davanti ai quadri «che sembrano offrirsi  crocifissi e indifesi al supremo giudizio della folla».
Sangillo si afferma come artista dallo stile personalissimo, fuori dalle Accademie. Ed espone nelle più prestigiose gallerie italiane, tra cui la Gussoni di Milano, presentato da Valerio Mariani, noto critico d’arte, titolare della rubrica “La Ronda delle Arti” alla Rai di Roma.  La mostra vede la presenza costante di Carlo Carrà, che esprime giudizi lusinghieri  all’artista, e si intrattiene con lui per interi pomeriggi a parlare dei quadri, affascinato dalla sua vena creativa e dalla sua “verve” comunicativa. Sulla “performance” milanese di Sangillo scriverà una bella recensione Raffaele  De Grada, allora in forza alla sede Rai della città lombarda.
Nell’ultimo trentennio, Sangillo ha pubblicato varie sillogi poetiche, rivelando un’ispirazione intensa e originale: “Figure e palpiti di vita” (1982), “Sapore del tempo” (1985), “Specchio di antiche lune” (1989), confluite nelle raccolte “Segni di un uomo nel tempo” (1991), “Parole e silenzi” (1992), “Sogno e memoria” (1996),  “Approdi” (2002), tutte edite da Schena.
Fu un altro intellettuale rodiano di rango, lo scrittore Giuseppe Cassieri, nella prefazione a  “Specchio di antiche lune”, a definire per primo la superiore «essenza» dell’arte e della poesia di Sangillo: «Figli della stessa terra, vittime delle medesime inquietudini ambientali, entrambi sedotti dal medesimo paesaggio garganico: il Varano, Santa  Barbara, il Taléro.  Lui però ha avuto il merito di scommettere tutto nel poco spazio che gli veniva concesso, radicarsi fi no all’osso carsico sottostante, alimentare i propri doni creativi di quotidiane ansie, di infinite tenerezze. Se il prezzo pagato in termini di sopravvivenza personale è oggettivamente alto, le Muse in compenso sono state generose con l’artista, rinnovandogli i loro favori a ogni rinascita del giorno. Non solo il poeta del disegno  e del colore, che certo è preminente e gli assicura un posto di rilievo nelle correnti  figurative del Mezzogiorno, ma anche il poeta in versi. Da leggere, oso suggerire, in lieve abbandono, accostando l’orecchio alle minime crespature del cuore e del lago (il referente elettivo di Sangillo), così come occorre spalancare l’occhio sulle minime vibrazioni dei verdi e degli azzurri in disperata sinergia sulla tela, quanto più tetre si rivelano le corrispondenze umane, e come refrattario, inibito, il senso del mondo. C’è un’immagine – in realtà un bell’ossimoro – che estrarrei dal Canzoniere amoroso e la porrei emblematicamente al centro dell’esperienza lirica che accompagna il nostro autore: “Il tuo gelo / mi ustiona. Ecco: ho l’impressione che turbamenti e aspre veglie, malinconie e rare esultanze, passino di lì”».
Dopo i Sigilli d’argento delle Università di Bari e Foggia, e il prestigioso riconoscimento di Cavaliere al merito della Repubblica, parlare di Mimì Sangillo, in questo momento estremo, è per noi, che l’abbiamo sempre amato ed apprezzato,  un’emozione, tenera e profondamente sentita.
Che la terra ti sia lieve, Maestro!
Teresa Maria Rauzino