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MARIANO DELLI SANTI, UN MAESTRO, IL SUO TEMPO, IL SUO ESEMPIO, I RICORDI…

La commemorazione a 40 anni dalla sua prematura scomparsa.

Nell’immaginario di quegli anni, ma anche oggi, dire “il maestro” è dire “Mariano delli Santi. Tantissimi ne conservano sempre vivo il ricordo e lo consegnano ai ragazzi di oggi come modello di una scuola che insegna valori partendo dalla propria esemplare condotta. Il ricordo di Ludovico Ragno, dell’ex alunno Pasquale Ciliberti e del figlio ninì delli Santi.

 

Il 22 ottobre del 1976 venne a mancare a solo 57 anni Mariano delli Santi, insegnante. Fu assessore e vice sindaco nei primi anni ’50. Sabato 22 ottobre alle ore 18,30 i famigliari invitano gli amici e quanti lo hanno conosciuto e ricordano alla messa in suo suffragio a S. Maria di Merino.

Ricordare un amico che ci ha lasciato mezzo secolo fa è, di fatto, rivivere gli avvenimenti, i momenti vissuti in quegli anni. Di essi, nonostante il trascorrere del tem-po, i sopravvissuti della mia generazione siamo rimasti ancorati soprattutto al periodo della nostra giovinezza, dopo la fine della seconda guerra mondiale (1945), da quando avevamo dai venti ai trent’anni e dintorni e per un buon decennio a seguire.

Nel rievocare Mariano delli Santi, per quello che è stato, per quello che ha fatto, il mio pensiero va istintivamente a quegli anni. A Vieste fermentavano, come in tutto il Paese, vecchi problemi riconsiderati con idee e aspettative nuove e, nel contempo, prendevano vita numerose situazioni politiche e amministrative, volte al cambiamento.
Tra altre misure, si dette il via a debellare l’analfabetismo grazie a una più capillare espansione della scuola dell’obbligo e l’istituzione di corsi di scuola serale per adulti. Su un altro piano, si operò per attenuare l’endemica disoccupazione dei braccianti agricoli. Ma la situazione non migliorò di molto nonostante una provvida legge che garantiva a ciascun bracciante un minimo di giornate lavorative al mese, nonché l’apertura di cantieri di lavoro istituiti dal Comune e il sostegno della rinnovata organizzazione sindacale, forte dell’appoggio dei principali partiti. Sicché le tensioni erano all’ordine del giorno.

I cambiamenti più radicali ebbero luogo nel contesto istituzionale. Il più clamoroso fu la trasformazione dello Stato italiano da monarchia a repubblica. Un altro cambiamento significativo fu la sostituzione della carica di podestà nominato dal prefetto, quale amministratore unico del Comune, con quella del sindaco capo del Consiglio Comunale eletto dai cittadini.
Rinascevano i vecchi partiti (Socialista, Popolare col nuovo nome di Democrazia Cristiana, Liberale, Comunista), e ne nascevano alcuni nuovi, tra i quali, a livello na-zionale, Partito d’Azione e Democrazia del lavoro (scompariranno negli Anni 50), Partito Monarchico e Movimento Sociale Italiano.

Tutto sommato, il movimentato mondo di allora dava materia ai giovani di ben sperare nel prossimo domani. Aspettativa che non sempre o non per tutti si tradusse in fatti concreti.
Mariano delli Santi è un giovane incline per temperamento ai valori del sociale e della cultura. Io lo posso dire. Oltre che amici siamo due volte colleghi, nella scuola elementare come insegnanti e in politica nell’adesione attiva alla Democrazia Cristia-na. In tutto quello che fa egli profonde intelligenza e passione, onde si guadagna l’apprezzamento e la stima di quanti, a vario titolo, vengono con lui in contatto.

L’impatto con l’insegnamento avviene nell’edificio scolastico contiguo al palazzo comunale, una ventina di aule, affollate da 50 a 60 alunni nelle classi 1^ e 2^, un po’ meno nelle successive, specie in 4^ e 5^ dove gli alunni si aggirano intorno a 30-40.

La ragione di questo divario? Vi sono ancora tanti genitori, chi per estrema povertà, chi per sconsideratezza, chi per la convinzione che a zappatori e manovali basta saper fare la propria firma, i quali ritengono che sia sufficiente la 1^ classe o poco più. Pertanto, alla 5^ arrivano più o meno la metà di quanti erano in 1^.

Gli insegnanti anziani sono abituati al grande numero di alunni d’ogni classe. Noi, dico i giovani, no. Però i 60 alunni di 1^, come i 40 di 5^, non ci fanno impressione. Dobbiamo insegnare e basta. Ci diamo da fare, mettendo a frutto ciascuno la propria preparazione, la propria capacità di rapportarsi con i ragazzi per svolgere al meglio il programma prescritto.
I ricordi non mancano, ognuno ha i suoi. Cito uno, collettivo. Allora gli insegnanti non tenevano assemblee di collaborazione come avviene adesso, da anni. Però, negli occasionali contatti tra colleghi indugiavamo volentieri a scambiarci notizie su quello che facevamo a scuola. Poi, ognuno per sé e Dio per tutti.

Penso che già dal primo anno d’insegnamento ci sia riuscito di ben operare, visto il giudizio positivo espresso dal direttore didattico, che allora, verso la fine dell’anno scolastico, faceva la visita alle classi e in base al livello di apprendimento rilevato negli alunni, nonché ad altri elementi, dava la qualifica all’insegnante.

Di quella indimenticata stagione della vita conservo, e qui inserisco, una fotografia quasi d’epoca, scattata quando ormai volgeva al termine. E’del mese di maggio 1960, siamo nel cortile della scuola elementare contigua al municipio. I nostri nomi: seduti, Gaetano (detto Nino) Notarangelo e Ludovico (detto Nino) Cariglia; al centro, in piedi, Pasquale Mazzone e Antonella Soldano (giovane maestra, invitata); dietro, Ignazio Piracci, Michelantonio (detto Tonino) Olivieri, io Ludovico Ragno, Mariano delli Santi.
L’altro settore dell’impegno di Mariano è la politica, a cui la valenza del sociale dà forza e da essa ne riceve.

Alle elezioni amministrative del 1952, candidato nella lista DC, viene eletto consigliere comunale, assessore e vice sindaco. Egli è il collaboratore di punta del sindaco Francesco Manzini.
Dell’operosità di quell’Amministrazione rammento la costruzione al lungomare Europa della Casa della Maternità e Infanzia con annessi un consultorio di ginecolo-gia e ostetricia e uno di pediatria, la caserma della forestale di fronte alla rotatoria dopo Via 24 maggio, gli scavi nell’area archeologica di Merino, vicino la chiesa, dove vengono messi in luce reperti di epoca romana, tra i quali un mosaico raffigurante la nascita di un cavallino. Ma questo mosaico, voi lettori non cercatelo più, chè ignoti vandali, o collezionisti senza scrupoli di reperti, non so quando, lo fecero sparire.

Mariano viene eletto una seconda volta, ed io per la prima volta, alle comunali del 1956. Diventiamo entrambi assessori ed io anche vicesindaco nell’Amministrazione guidata dal sindaco Giovanni Latorre.

Operiamo a tutto campo. Nel settore scuola vengono progettati la Scuola Media in via Madonna della Libera, un altro edificio di scuola elementare in via Tommaseo, un nuovo lotto di aule abbinate a quelle esistenti al corso L. Fazzini. E’istituito il Liceo Scientifico dopo laboriose trattative con l’Amministrazione Provinciale. Opere in altri settori. Alcune vie della città, a fondo naturale, vengono pavimentate, in parte con mattonelle di cemento e in parte con il manto di cemento, strade di campagna sono invece asfaltate, qualcuna anche allargata. La spiaggia vicino la pescheria viene colmata fino al livello della strada che la fiancheggia, per 20 metri di larghezza e per tutta la lunghezza. Sull’area che ne risulta sono impiantate le palme. Successivi interventi ne faranno la Marina Piccola che ora vediamo.

Dalle Amministrazioni civiche menzionate, e da quelle che seguiranno saranno compiute ancora tante opere strutturali e d’immagine, anche di grande importanza, che qui non è il caso di elencare, che danno qualità alla vivibilità della nostra città.

Al termine del secondo ciclo amministrativo, Mariano delli Santi chiude con la politica. Ma ha sempre tanto di che occuparsi. Per quanto lo conosco, posso senza tema aggiungere che oltre all’impegno per la scuola, ha il culto della famiglia, che manifesta sul filo di una vita esemplare, accompagnato dall’amorevole consorte Maria Campaniello, dall’affetto dei suoi cinque figli e dalla considerazione di chi lo conosce.

Insieme a Mariano, ho piacere di ricordare i suoi due fratelli: Ruggiero, geometra, responsabile unico per molti anni dell’ufficio tecnico comunale in cui operò con competenza e passione. Gaetano, insegnante elementare, il più fecondo poeta dialettale di Vieste.

Un caro saluto ai figli dell’uno e degli altri.

Ludovico Ragno

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Il Ricordo di Pasquale Ciliberti ex alunno

Mi ritengo fortunato e privilegiato per aver avuto come insegnante di scuola elementare il maestro Mariano delli Santi.

Lo ricordo sempre con grande nostalgia, perché oltre a trasmettermi gli insegnamenti didattici, mi ha anche inculcato qualità importanti come quelle della puntualità, della precisione, dell’attaccamento e della passione per il lavoro, cose che nella vita professionale hanno contato per me come una bussola in un luogo sperduto. Ricordo come fosse ieri che una volta entrato in classe in perfetto orario, per lui esisteva solo la massima dedizione al suo ruolo di insegnante e mai era solito intrattenersi nel corridoio con gli altri colleghi; fumarsi una sigaretta era un autentica eresia, un esempio disdicevole verso la sua etica professionale e verso noi ragazzi.

Che io ricordi, nei cinque anni che –fortunatamente- ho trascorso con lui si è assentato solo un paio di volte, ma solo per tener fede ai suoi impegni politici (ricopriva la carica di Assessore), dove per politica intendo il senso vero del fare politica, vale a dire dell’impegnarsi nel servire le istituzioni e i cittadini senza trarne alcuna utilità personale, famigliare o patrimoniale.

Ogni mattina, noi alunni speravamo che facesse un giorno di assenza e in caso di leggero ritardo correvamo all’imboccatura di Via S. Maria di Merino per vedere se arrivava, (era solito percorrere quel tratto per venire a scuola); alla fine tornavamo sempre con la coda fra le gambe perché arrivava e come! ed era lì sempre presente, in cattedra!
A distanza di tanti anni dico a me stesso che è stato giusto così. Un insegnante ha un grande ruolo ed una grande responsabilità verso gli alunni, soprattutto quelli più piccoli, perché se i buoni insegnamenti prendono piede da piccoli, c’è speranza che diano buoni frutti anche da giovani e poi da grandi, vale a dire siano una scuola di vita.
Altro grande dono, di cui gli sarò sempre grato, sta nell’avermi insegnato la passione per la ricerca storica, perchè il suo modo di insegnare la storia me (ce) la rendeva appassionante. Ricordo ancora oggi quando illustrava –e proprio il caso di dire- gli episodi di Muzio Scevola, degli Orazi e Curiazi, di Pier Capponi e di Maramaldo, oltre quello leggendario di Enrico Toti: sembrava di trovarsi lì sulla scena e di vivere l’avvenimento insieme ai protagonisti che il-lustrava.

Aveva un modo di insegnare talmente efficace che nonostante una materia poteva sembrare ostica (come la matematica), Lui riusciva a rendertela piacevole. Ed è questa una qualità inestimabile in un insegnante.

E’ stato un maestro che amava (già a quei tempi, stiamo parlando del periodo 1958-1963) dialogare con noi alunni e raramente faceva ricorso alla pedagogica bacchetta.
A proposito di bacchetta, un particolare mi salta in mente: ero io il fornitore ufficiale della famosa stecca; toccava a me perché ero figlio di un falegname e una bacchetta in legno il Maestro non poteva che procurarsela da un falegname. Devo dire però che quel “mezzo di persuasione” lo usava, -pensa te-, solo per suo figlio Ninì al quale è sempre piaciuto giocare a pallone e il pomeriggio (a parere del padre) lo dedicava prima al calcio e poi allo studio. E Lui era solito ricordargli a suon di bacchettate cosa doveva venire prima e cosa dopo.
Con il passar degli anni ho anche intuito che però c’era una sorta di intesa tra mio padre falegname e il maestro, sulle bacchette: perché succedeva che le stecche fornite –stranamente!- si spezzavano al primo colpo; scoprii infatti che erano tutte ricavate da venatura trasversale e quindi poco resistenti, proprio perché il maestro si raccomandava con mio padre che dovevano non fare troppo male. Bastava solo che facessero passare un certo messaggio. Prezioso tanto a quei tempi, come lo sarebbe oggi. Grazie di cuore, Maestro.

Pasquale Ciliberti, alunno

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Oggi mio padre avrebbe 97 anni.
Non c’è più da 40 anni; aveva appena compiuto 57 anni.

Sì, è un fatto personale, ma così personale da essere poi universale. Perché riguarda un padre e un uomo antico della scuola.
Mio padre fu il secondo dei maschi di una famiglia numerosa e antica, ed io sono il figlio maggiore di una famiglia numerosa e ultima antica. E’ nato, e non ha fatto in tempo ad invecchiare a Vieste; ha passato gran parte della sua vita nella scuola, ad insegnare. Andò via in anticipo dalla scuola, causa un infarto miocardico ma anche perché disgustato da come la stava riducendo la demagogia, figlia dell’ideologia e madre dell’impreparazione.

Curava i suoi libri e i suoi francobolli come si curano le piante, faceva giardinaggio filosofico. Animo gentile prima che gentiluomo, amava defilarsi e pagava in anticipo per non avere mai debiti.

Rimase a Vieste; non conobbe paesi stranieri, metropoli, traffico e affanni. Ma andò in guerra con i fratelli Ruggiero e Gaetano. Guerra che gli impedì di laurearsi a soli due esami dalla meta. Barattò il proprio tempo per il proprio luogo, preferì Socrate all’automobile. Gli bastava Kant per conoscere il cielo stellato, senza mai salire su un aereo.

Una settimana dopo il funerale ho voluto dormire nel suo letto. Era il letto nuziale: 24 anni di notti con mia madre. In quel letto son nato, là in mezzo a loro ho dormito i miei primi anni. Son tornato, tra i suoi oggetti, la scrivania gremita di lui, i suoi amati libri, tanti. Le riviste in ordine di tempo. Aveva l’ora della storia, l’ora della cronaca, l’ora della poesia, l’ora dei francobolli. Ho ricordato ogni cosa. Lascia o raddoppia, alla prima Tv, mentre mamma lo esortava a partecipare alla trasmissione, con tutto il vicinato incantato dalle sue risposte.

Ricordo i tre turni del doposcuola, un’autentica missione resa alla preparazione di intere generazioni: il primo riservato per i ragazzi dell’ammissione agli esami di quinta elementare, il secondo per la preparazione alle superiori e il terzo per chi doveva sostenere un concorso. In casa era un andirivieni continuo di scolari che neanche certi sacrosanti mugugni materni mai riuscirono a scongiurare. Troppo importante era la devozione

Alle elementari quando fece uscire fuori tutta la classe intimandomi di restare: doveva parlarmi! In piedi, vicino al banco, per spiegarmi l’importanza di quella virgola nella prima strofa di Pianto Antico di Carducci: L’albero a cui tendevi / La pargoletta mano, / Il verde melograno / Da’ bei vermigli fior; (…) quella virgola che mi costò un paliatone.

Eccome se lo ricordo! Alle Medie, io, Michele canzonato perché mi chiamavano Ninì. “Papà, perché non mi chiamate Michele”, E lui serafico: “Siete arrivati a parlare della tradizione?”. Quarant’anni dopo mi è toccato scrivere un libro. Come aveva ragione: quel Ninì era il rammento della sua infanzia. Laddove non ci si collega ad una tradizione, ad un orizzonte di senso comune: tutto muore senza lasciare una traccia.

Ninì, era la sua madrina preferita. Ricordo quando mi ripeteva con insistenza: “Mettiti sempre con quelli migliori di te… e perdici”. Mentre me lo ripeteva il suo sguardo era rivolto alla pila di libri sulla scrivania. Mi ricordo la sua faccia al ritorno dai colloqui scolastici. Il suo: “non meriti fiducia!”. Mi ricordo il suo promemoria al mio primo viaggio a Firenze: “mi raccomando di visitare con calma Santa Croce”. Ricordo la prima e l’unica volta che mi vide giocare a calcio: “devi migliorare nella corsa…e peccato per l’altezz!”. Non aveva potuto partecipare al concorso di Tenente proprio per via della sua altezza. Quasi una fissa. “Spero siano i vostri figli a riscattarmi! ” ripeteva fiducioso.

Papà ti faccio ascoltare un giovane cantautore: si chiama Fabrizio De Andrè: è fortissimo! Sì, – mi rispose – ascolta anche George Moustaki, meglio Georges Brassens! Ricordo il malore causato dalla mia rovinosa caduta al terzo liceo. Ma anche il suo sguardo di enorme soddisfazione agli esami di maturità. Ricordo la litigata per le iscrizioni all’università. Forse l’unica. Non si poteva litigare con lui. Era sempre un passo avanti. Ricordo, a Roma, come spesso capitava nel corso delle nostre conversazioni e per darmi un tono, gli ricordai che: “ognuno vede quel che tu pari, pochi sentono quel che tu sei!”, “I tuoi figli non sono poi così male!”. E lui serafico: “Vedo che ora t’interessi non solo del portiere del Milan, ma anche di Machiavelli!” E serioso aggiunse: “E’ difficile instaurare un rapporto genitori-figli. E’ sempre stato difficile: un giorno lo capirai anche tu!…”.

Ricordo il primo viaggio di mamma quando venne a trovarmi a Siena e per poco non chiamò i carabinieri: tanto sentiva il suo distacco, erano passate solo due ore! Ricordo la scelta di Gaetano di frequentare l’Accademia di Belle Arti. Era titubante. Intervenni deciso: “me lo porto a Siena!”. Capitolò, ma già dopo una settimana era felicissimo e quando era felice si emozionava.

Ricordo il suo sguardo meravigliato quando Tommaso, il suo paffutello, descriveva con minuziosa dovizia storie e caratteristiche di tutte le macchine dell’epoca. Sarà il manager della famiglia, ripeteva.

Ricordo la gioia e il ritorno alla vita, dopo la paura del primo infarto, la nascita di Gerry: sarà il mio bastone!

Spesso vi sorprendo a passeggiare in riva al mare sulla spiaggia della Banchina, la tua preferita. Gerry, che ti chiede del suo amato Oriente e tu che, sono certo, gli suggerisci che l’anima è il nostro Oriente, l’energia è il nostro Occidente. Essere a Oriente, esistere a Occidente.

Non è la storia privata di un padre e dei suoi figli, della sua famiglia – quella che sto tentando di rammentare – perché l’affetto e l’onore tributato ad un padre fa parte del no¬stro alfabeto elementare, universale, dell’amore filiale, reso ancora più tenero dall’età, dal corpo fragile. Perché con gli anni si diventa evanescenti, immateriali, quasi incorporei, leggeri come una piuma, pronti per il volo.

E perché io vi confesso che, quando penso alla famiglia, penso a loro, alla famiglia da cui provengo, prima che a quella che formai. Ho saputo essere forse un buon figlio, ho paura di non essere un buon padre. Sono qui per dirgli grazie. Non solo per l’affetto che ci ha dato, per l’educazione che ci ha trasmesso, per l’amore verso il mare e la campagna che mi ha fatto respirare; per i libri che mi ha donato, per l’amore assurdo per la filosofia, la storia e le lettere che mi ha contagiato.

È bello ritrovare mentre leggo un libro, una sua chiosa autografa o accorgermi che ciò che tu stai sottolineando ora, lo aveva già sottolineato lui. Vedi il tempo curvarsi e il passato ritornare insieme al presente; vedi la cultura trasmettersi di padre in figlio, con un atto d’amore e di continuità.

Sono qui a dirgli grazie per la sua preferenza verso le posizioni scomode e perdenti, per la sua candida inattitudine agli affari, alla vita pratica e alle furberie dei traffichini; la stessa inattitudine che temo di aver assimilato, per via genetica e virale. Ci tramandiamo la coglioneria da generazioni, come un allegato araldico.

Grazie per la tua gentilezza d’animo e per l’ingenuità di fidarsi del prossimo che ci hai trasmesso e che ci disarma rispetto alle grevità della vita, rispetto ai parassiti ingrati, agli avvoltoi che anche lui, come noi, scambiava per poveri passeracei a cui porgere il cibo.

Mio padre era così delicato che quando i fumatori gli offrivano le sigarette, lui per non mortificarli ostentando la sua virtù di non fu¬matore, si scherniva dicendo: “Grazie, ma non so fumare”. Non è un merito se non fumo ma una colpa, suggeriva con il suo volto mortificato; è una mia imperizia e non un vostro vizio.

Una volta un suo ex alunno, alla biblioteca scolastica che inventò e forgiò, gli presentò il suo neonato nel passeggino ed era un tantino sgraziato che poteva sembrare ipocrita fargli un complimento; così lo guardò perplesso e non sapendo dire bugie, anche di circostanza, restando comunque gradevole, disse: «Che bella carrozzina». Fu di un’involontaria comicità, seppure dolcissimo.

Molte generazioni che hanno oggi dai 50 agli 80 anni hanno studiato e amato, grazie a lui, Leopardi, Garibaldi e forse anche Socrate. Ho conosciuto suoi alunni che hanno ora un’età da ospizio.

Il suo mondo è stato il mare, la campagna, il suo paese, i centri pugliesi dove ha insegnato, un paio di grandi città per necessità, i luoghi della guerra e poco altro. Non è mai uscito dall’Italia, non è mai andato in aereo, non ha mai guidato un’auto, non ha mai trafficato in assegni, e ha usato pochissimo la macchina da scrivere. Solo la sua chiara calligrafia! che con il male divenne incerta e tremolante come quella di un principiante.

Nacque prima dell’età contemporanea, nel settembre del 1919, quando le fontane dell’Acquedotto Pugliese ancora non arrivarono a Vieste; quando già da cinque anni era scoppiata la Prima Guerra Mondiale. Antico e naturale, insegnava e abitava nella particolare preistoria viestana. Si sentiva a disagio quando usciva dal paese, anche se incoraggiava tutti noi ad essere curiosi e a farlo spesso per “conoscere il mondo”. Voleva tornare presto a casa, per rifugiarsi nelle sue abitudini. Vorrei tanto oggi vederlo finalmente contento, col sorriso rinato sulle labbra. E con il cuore grato di suo figlio, il maggiore, come lui diceva. Quel sorriso di soddisfazione, che riapparve per l’ultima volta a Roma, quando convinsi i medici, nel giorno della Pasquetta, a lasciarci ritornare a casa.

In ambulanza fu il nostro ultimo viaggio. Era bello e facile stargli insieme quando potevamo parlare di Dante, Platone; era duro stargli appresso. Profondo, riflessivo, originale. Si, era impossibile stargli dietro. Poi le belve della malattia lo azzannarono fin dentro l’anima e tutto si complicò. Penso alle ultime volte che ho camminato, nei corridoi dell’ospedale con Lui: mano nella mano, come vent’anni prima. Ma il bambino stavolta era Lui, e non sapeva più camminare da solo. Stava svanendo la sua mente ma spesso, dopo una giornata trascorsa in corsia, chiedeva di tornare a casa.

Non erano i postumi di un ictus, ma una traccia estrema di lucidità e una richiesta disperata di aiuto: chiedeva di tornare in sé, di ritrovare il suo corpo e la sua mente, e usava la metafora più elementare, la casa, per invocare il ritorno. È dolce scoprire in un papà dove si nasconde il bambino, snidarlo negli sguardi e nei modi di atteggiarsi.

Ma è un esercizio che costa a chi lo ama, perché se lo vedi bambino vedi svanire dal suo volto la vita e la storia da cui tu discendi, l’incontro con tua madre, la tua famiglia, la paternità, i libri e la memoria di te.

Una delle ultime volte che fummo insieme era seduto sul divano in cameretta, col volto inondato dal sole e gli occhi socchiusi. Mi sedetti accanto a Lui; gli sfiorai le mani e gli sussurrai qualcosa all’orecchio per avvertirlo della mia presenza. Lui mi guardò appena, muto e vago, poi mi chiese chi fossi. Dissi ad alta voce il mio nome, e lui biascicò sottovoce come parlando a invisibili terzi: ah, è il fratello… Ma sono tuo figlio, guardami! alzai la voce. Mio padre accennò di traverso uno sguardo; tacque, poi risalì dal silenzio, e mi parlò come se fosse tornato alla normalità: mi raccomandò di tener unita la famiglia.

In ospedale, gli massaggiavo a lungo le gambe, ormai scheletriche, per dargli un estremo conforto e per riceverlo. Era l’ultimo modo per stabilire un contatto con lui. Poi, a Milano, la telefonata di zio Michele: “scendi subito. papà se ne andato!”. Ho perso il mio primo e più affezionato estimatore, ho perso il mio primo e indispensabile autore.

Alla fine vi devo confessare che vi ho preso in giro; ho scritto questo fingendo che fosse un tema universale, invece no, ho approfittato, l’ho fatto solo per Lui. Perché, sono 40 anni che non c’è più! E allora oggi l’ho rivisto quando mi accompagnava alla porta, quando mi ripeteva allo sfinimento di studiare e di non cessare d’essere curioso, di tenere unita con tutte le forze la famiglia.

Oggi come quarant’anni fa: ed io lo vedo mentre lui non mi vede, e mi sporgo dal finestrino quando il treno per Siena s’allontana per spiarlo: me lo immagino mentre torna, accompagnato, alla sua vita quotidiana. E lo seguo, quel puntino stanco, che si allontana! e indovino da lontano le sue parole, la sua tristezza di una lontananza, il suo rientrare alle piccole manie, che diventavano per lui impellenti. Ma una semplice smorfia mi fa ritornare ad oggi. Papà non ci sei più! Papà, non è vero tu sei sempre stato qui accanto a noi! Papà grazie!

Grazie per averci donato un passato. Senza quel passato non ci sarebbe stata questa nostra meravigliosa storia. Non ci sarebbe stato nè presente, nè un futuro immaginabili. E’ diventato arduo oggi spiegarlo, a chi ha fatto o sta facendo, scomparire la figura paterna. Ogni epoca ha reinventato il ruolo paterno. Dal padre “padrone” dei primi del ‘900, al padre mammo di fine millennio, sino al papi di questi ultimissimi anni. Accantonando la Tradizione -dico loro- non ne è nata la scoperta del nuovo o di un nuovo; è sorto solo un nuovo conformismo, una forma di becero ossequio allo Spirito della Moda.

I ribelli dei prossimi anni non si rivolteranno più contro i padri, ma contro la loro latitanza. Finora abbiamo trasformato la vita e il mondo; proviamo ora a conoscerli. Per questo sussurro a miei figli: non è possibile il progresso senza quel filo incessante di continuità….

A proposito, papà, i tuoi nipoti Mariano, sono alti più di un metro e ottanta!

n.

 

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Mariano delli Santi

19 settembre 1919 – 22 Ottobre 1976 – 40° anniversario

Papà carissimo, ogni giorno il tuo ricordo è il nostro esempio e la nostra guida.
Sei nel nostro cuore.
Con tanto amore.

La tua famiglia

S. Messa Santuario di S. Maria di Merino alle ore 18,30 di sabato 22 ottobre

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