Menu Chiudi

«La Legge» della mafia garganica feroce oggi come sessant’anni fa

La descrizione della sua prepotenza e il servilismo fatalista della gente erano già presenti nel romanzo del francese Roger Vailland (1956) e nel film omonimo di Jules Dassin, ambientato in una Carpino che nella versione italiana divenne un paesino della Corsica.

In quest’epoca di sovresposizione drammaturgica della malavita, tra Gomorre e Suburre fin troppo glamour, allignava da tempo, nella penombra garganica, una mafia quasi ignorata dai media. Il sangue innocente, versato all’improvviso, ha spianato i riflettori sull’efferatezza di questa congrega di ex allevatori, assurti a trafficanti internazionali. Arcaicamente dediti a smaltire i cadaveri dei nemici nei trogoli dei maiali, o sul fondo delle locali gole carsiche. Un fenomeno dai germi antichi, colti in embrione, nell’estate del 1956, dal parigino Roger Vailland. Scrittore di matrice surrealista, vagava da flaneur tutto il giorno, per le campagne garganiche. Raccogliendo rosmarino, lauro e cipolle selvatiche, osservava stupito «uomini seduti per ore e ore sugli scalini di casa, immobili, muti, in contemplazione del nulla». Dietro il servilismo fatalista di tanti poveri cristi intravide una prepotenza organizzata, una mafia garganica che ancora non esisteva.
In un bar di Carpino, fu sorpreso da un grappolo di facce scolpite dal sole, intente a giocarsi a carte litri di vino forte, accarezzando i coltelli sotto il tavolo. Individuò i meccanismi del rituale: un padrone e un sottopadrone, estratti a sorte, disponevano del vino pagato da tutti i giocatori. Il gioco aveva un nome solenne: la legge, da imporre e da subire, con perfida ferocia, assecondando i capricci del caso. Dopo qualche giro di carte, il vino survoltava gli animi, alimentando rancori e basse insinuazioni, vero condimento del gioco. La vittima, designata dal padrone, veniva assetata o ubriacata, spesso costretta a subire in silenzio. Fatali le degenerazioni, frequenti gli spargimenti di sangue. Vailland rimase a bocca aperta, davanti a quel popolo capace di esorcizzare la protervia del potere, inflitto e subito, mettendola in scena. Ne fece materia da romanzo, sovrapponendo l’ossessione erotica del Surrealismo alla smania verghiana per la roba. Titolo, La loi (La legge), successivamente impresso su celluloide da Jules Dassin.
Il re del noir americano sbarcò nel 1958 sulle coste garganiche, seguito da un cast sfavillante. Don Cesare, gattopardesco feudatario locale, assunse la maestosità sorniona di Pierre Brasseur. La Lollobrigida incarnò una versione più sensuale della Bersagliera maggiorata di Pane amore e fantasia. Ad ansimarle addosso, il guappo Yves Montand, racketeer e trafficante, deciso a contendere a Don Cesare il diritto di esercitare la legge del più forte, nel gioco e nella vita. La versione italiana del film risulterà ambientata in Corsica, per eludere una censura irritata da quel Gargano affollato di criminali, legittimati dalla connivenza delle forze dell’ordine e dall’omertosa passività popolare. Eppure lo sguardo di Dassin è pieno dipìetas: «Sono venuto qui per conoscere. Nemmeno voi italiani sapete cos’è il Mezzogiorno» sussurra in un’intervista a bordo set. In quella strana isola ancorata al Tavoliere, tra rocce, stalle e trabucchi, dove il tempo sembra avvitarsi su se stesso ed escludere illusioni di progresso, Dassin scrive un altro capitolo sulla ferinità umana. Rilevando una distanza breve tra i familiari bassifondi urbani e la crudezza rurale del Gargano. Eppure, nel finale del film, cestina il pessimismo di Vailland e lascia che la Lollo ceda le sue grazie all’agronomo Mastroianni, arrivato a Carpino per bonificare le paludi, creando impresa e lavoro. Il protomafioso Montand, rimasto a bocca asciutta, vaga smarrito nella piazza, fra i mormorii liberatori dei contadini. «Quello non la farà mai più, la legge» sentenziano, come un coro greco.
Nella stessa piazza, quasi sessant’anni dopo, si gioca ancora alla Legge. Ci si può imbattere perfino in qualche comparsa superstite, oggi novantenne. Il vino scorre ancora copioso: tra lazzi, mugugni e risate, si organizza il lavoro nei campi, selezionando braccianti. Nel periodo della raccolta delle olive si presentano anche gruppi di nigeriani e camerunensi. Speranzosi di rimediare un pugno di spiccioli, per una giornata di lavoro in campagna.

Giuseppe Sansonna
corrieredelmezzogiorno