Sembra strano che una composizione poetica possa essere ancora in piena salute dopo due secoli. Ma ciò è avvenuto poiché “L’INFINITO” di Giacomo Leopardi resta una delle poesie più belle e più apprezzate dell’intera storia della letteratura italiana. Le miriadi di generazioni che hanno letto e studiato la poesia di Leopardi sono innumerevoli e nessuno in cuor suo ha mai dubitato della bellezza e della suggestione che questa poesia suscita nell’animo umano, provocando un’emozione meravigliosa e mai sopita. Giacomo Leopardi, noto al popolo meno attento, come il poeta del pessimismo va ben oltre tale definizione. Il suo contrapporsi a certe situazioni poco benigne nei suoi confronti e non solo, lo pone su un piedistallo poetico differente, in quanto è attraverso questa velata malinconia che egli interroga la natura e l’umanità sulle vicende umane a volte amare, a volte piacevoli che caratterizzano il sentiero che ogni persona percorre durante la sua vita e svela come la natura spesso si rivolge non a favore ma contro la gente O natura perché di tanto inganni i figli tuoi “è il verso che si erge a testimone del concetto del poeta sulla natura. Tutto questo Giacomo lo fa con discrezione, direi quasi sottovoce. Egli diviene così il poeta confidenziale di ognuno di noi; egli ci parla come un caro amico che è, pronto a sollevarci dai malori che attanagliano il nostro divenire. Per cui anche per noi diventa dolce naufragare in questo mare.
L’INFINITO |
Sempre caro mi fu quest’ermo colle, E il naufragar m’è dolce in questo mare. |
SENZA FIN
M’è semp piaciut sta mundagnell
E questa fratt ca nu belle poch
L’utma v’dut all’occhie m’annammocc.
Ma assttann’m e spiann da quedda fratt
Terr scunfnet e senza cr’stien
E silenzie e tanda cuiet
Ji m’bnzer m per ca stengh
Adov p spoch u cor n’mbigghie paur
E com lu vend send u r’mor
Tra quassi chiand, ji queddu
Silenzie senza fin e quesssa voc
Vaje cunfr’ndann e m’arrcord
Lu tenp senza temp, li staggimi mort
E quessa viv, e u frase so.
Accuscì dind’a sti ‘mmerz u p’nzer
M ijt ciaffogh e lu ‘nnaspcà
È doc dind’a stu mer.
Traduzione in dialetto apricenese dell’INFINITO DI GIACOMO LEOPARDI
Raffaele Pennelli