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Vieste/ Prigionieri di guerra utilizzati come forza lavoro

Durante la Seconda guerra mondiale, i Tedeschi utilizzarono i prigionieri di guerra come forza lavoro, in stato coatto. In tali condizioni finirono anche molti Italiani, di tutte le Forze Armate, dopo la disfatta dell’Italia e del relativo armistizio dell’8 settembre 1943. Senza più linea di Comando e di comunicazioni, i nostri militari, allo sbando in tutto il teatro di guerra, caddero prigionieri dei Tedeschi, di cui erano stati alleati fino al giorno precedente, e furono deportati.

           La Germania Federale, volendo chiudere i conti con questo passato, con una legge che entrò in vigore il 12 agosto 2000, istituì la Fondazione “Memoria, Responsabilità e Futuro”, che impegnava << il governo e le industrie tedesche a indennizzare le persone deportate e internate, costrette ai lavori forzati durante il regime nazista in Germania e nei territori del Terzo Reich>>. A una condizione: che i reduci fossero in vita al 15 febbraio 1999.

           A Vieste si presentarono al raduno nove o dieci cittadini, o forse anche più, sto citando a memoria. Le pratiche di questi anziani soldati furono curate dalla locale Sezione dell’Associazione Combattenti e Reduci, di cui era responsabile e presidente Pinuccio Pagano, il quale mi fece l’onore di chiamarmi a collaborare, per la definizione degli atti. Ciò avvenne e le istanze, nominative e individuali, furono trasmesse dagli stessi interessati a un’Agenzia di Ginevra, secondo quanto stabilito dalle disposizioni.

           Non potendo accedere al materiale d’archivio, stipato in quella Sezione, mi provo a ricordare, qui, qualche vicenda più significativa di alcuni dei nostri reduci. Il primo che mi viene in mente è Tonino Corricelli, solerte bidello della Scuola Elementare, e uno dei maggiori esperti di Trabucchi; Tonino perse un braccio, troncato di netto da una scheggia vagante, mentre assaporava il vento della libertà. Il suo campo di concentramento, sulla linea di confine tra Francia e Belgio, aperto all’ultimo minuto dai tedeschi in fuga, si trovò in mezzo alle granate. Fu una strage. Lui fu curato in un ospedale da campo americano.

             E’ la volta, ora, di Mattia Danese e Matteo Bastardi, due giovanissimi marinai, classe 1923, catturati nel Mare Egeo mentre le loro navi erano alla fonda. Inviati in Germania, i due militari divennero operai metalmeccanici. Mattia fu destinato a una industria che costruiva vagoni ferroviari corazzati, di giorno e di notte; e Matteo andò in una fonderia delle acciaierie Krupp, dove si costruivano 500 carri armati al giorno. Rimasto ferito In un incidente presso un altoforno, Matteo fu curato amorevolmente, in una infermeria dell’opificio, da una dottoressa russa, anch’essa prigioniera di guerra. Mattia Danese e Matteo Bastardi mi mostrarono anche i loro libretti di lavoro.

           Seguono due forzati di prima linea, il fante Antonio Miglionico, classe 1923, catturato nella Grecia continentale, e l’artigliere Giuseppe Poté, classe 1922, preso nell’Isola di Cefalonia. Trasferiti entrambi sul fronte russo, lungo migliaia di chilometri, i due soldati italiani scavarono trincee e gallerie. Il fronte di Miglionico, sotto la spinta dei Sovietici arretrò di 600 chilometri, tutti fatti a piedi, in territorio polacco, sotto la pioggia, tra il fango, la neve e il gelo. Al termine della ritirata, il fante fu rinchiuso in un campo di concentramento e lì attese la fine della guerra. Il fronte di Poté tenne più a lungo, poi però fu travolto dai Sovietici, e lui, Poté, insieme ai tanti prigionieri tedeschi, si ritrovò in un capo di concentramento russo, sulle rive del Don. Una volta chiarita la sua posizione, gli fu affidato il compito di passare per le camerate, all’ora della sveglia mattutina, e di trasportare al vicino fiume, con una carriola, chi non rispondeva all’appello. “L’inverno russo non perdona, che peccato! sussurrò Poté tra le lacrime: erano tutti soldati giovanissimi, non avevano nemmeno vent’anni”.

           Per quanto riguarda Potè debbo precisare che il nostro artigliere non apparteneva alla Divisione Acqui, distrutta dai Tedeschi nell’Isola di Cefalonia, ma a un battaglione di artiglieria pesante, di supporto a quella sfortunata Unità dell’Esercito italiano. <<Non sparammo nemmeno un colpo – disse Poté – perché nessuno diede l’ordine di aprire il fuoco>>.

         Un discorso a parte spetta a Matteo Del Duca, classe 1913. Già garzone all’età di nove anni nelle masserie di Don Biasino Mafrolla, Matteo imparò presto a nutrirsi direttamente alla fonte, attaccandosi alle mammelle delle vacche e delle capre. Più o meno così imparò a leggere e a scrivere, durante il servizio militare di leva, a Torino, grazie a un’anziana maestra cui lui prestava qualche servizio di giardinaggio.   Sentendosi uomo fatto, dopo la leva Matteo partecipò alla Guerra di Spagna, e subito dopo alla Campagna d’Africa. Dopo, ancora, da richiamato partecipò alla Seconda Guerra Mondiale. Nel 1943 era nell’Isola di Creta, alle dirette dipendenze del Caporal Maggiore del Regio Esercito Gaetano Lombardi, classe 1917, pure lui cittadino di Vieste, e uomo molto severo. Tra i due, lo accenno appena, non scorse mai buon sangue. Lontano dal suo reparto, per un permesso concessogli proprio dal Lombardi, il giorno dopo l’armistizio Matteo incappò in un rastrellamento tedesco, che gli prolungò il permesso a tempo indeterminato. Il suo avventuroso e interminabile viaggio finì nella Prussia orientale, in un campo di concentramento di Köenigsberg, una città famosa per aver dato i natali al filosofo Immanuel Kant, oggi in territorio russo col nome di Kalinin. In quel campo Matteo strinse buoni rapporti con i soldati tedeschi di sorveglianza: la mattina si lavava con loro e come loro, strofinandosi, a vicenda, la neve sulle spalle nude. Per il troppo freddo le tubature dell’acqua erano quasi sempre ghiacciate. Ma in quel campo Matteo aveva anche un incarico: trasportava, spesso, cadaveri a una grande fossa comune. Con una carriola. La famosa carriola di Poté!

           Chi fossero quei morti, Matteo non lo disse; da me pressato, si strinse nelle spalle, aggrottò la fronte, e con sapienza antica rispose che nelle notti buie bisogna portare “la pedd a casa”. E per portare la pedd a casa si arruolò nelle SS, e in tali vesti riuscì a tornare in Italia, dalle parti di Torino. Qui si svestì di tutto il suo passato, e dopo tante soste e ripensamenti, a piedi, raggiunse Vieste. In tempo per iscriversi al Partito Comunista Italiano.

           Dopo qualche anno dalle famose richieste di risarcimento, Mattia Danese e Tonino Corricelli mi fecero leggere la risposta, negativa perché non c’erano i presupposti per essere ammessi all’equo indennizzo. Altro non so. I giornali, vagamente, scrissero che i Tedeschi non volevano pagare gli Italiani.

           I protagonisti di questa storia sono tutti morti. I più longevi sono stati proprio i due più anziani, Matteo Del Duca e Gaetano Lombardi. Conoscevo bene tutti e due. Matteo, che si è fermato a pochi mesi da quota 100, nel 2012, del suo passato non ricordava più nulla; almeno così mi diceva. Gaetano, dritto come un fuso fino all’ultimo, appoggiato appena a un bastone, lo si incontrava ancora al mercatino della frutta, dietro la moglie (la terza!). L’ultima volta che lo vidi, mi invitò alla sua festa di quota 100. La mancò per qualche mese alla fine del 2016.  Gaetano Lombardi andava fiero del suo passato di soldato. In quel settembre del quarantatré si sottrasse alla cattura da parte dei tedeschi, e salvò centinaia dei suoi uomini, quelli che sapevano nuotare, ordinando loro, sotto la minaccia della pistola, di gettarsi in mare, per trovare scampo tra gli anfratti e nelle grotte della costa.

Vieste, 31 marzo 2020.  

Giovanni Masi.