Aria serena quando appar l’albore, / e bianca neve scender senza venti, / rivera d’acqua, e prato d1ogni fiore, /oro, argenti, azzurro in ornamenti.
GUIDO CAVALCANTI
Sono quattro piccole scene che scorrono davanti ai nostri occhi: provate, leggendo piano ogni verso, a ricrearle per un istante. Ecco un’alba luminosa con l’aria tersa e primaverile. Oppure una stanza calda invernale e fuori dalla finestra lo svolazzare pacato e costante dei fiocchi di neve. Ecco poi un paesaggio estivo campestre con un ruscello che scorre lieve e un prato costellato di fiori. E infine un intrecciarsi di splendori e colori su un tessuto prezioso o in un palazzo sontuoso.
Immagini, certo, di bellezza e di armonia, ma ciò che vorremmo marcare in questi versi del sonetto Beltà di donna di Guido Cavalcanti, poeta fiorentino del XIII secolo, è piuttosto la pace che quelle scene generano in chi le contempla. Un sentimento e una gioia che, frettolosi e distratti come siamo, non sappiamo più gustare.
E così dimentichiamo di ringraziare per tanti doni che ci sono offerti e che subito accantoniamo o anche ignoriamo. Respirare, camminare, vedere, ascoltare sono offerte divine quotidiane di cui non apprezziamo più il valore.
Così, paesaggi stupendi, volti misteriosi e gentili, opere mirabili dell’arte sfilano invano davanti a persone incupite e ingrigite, incapaci di ricordare che «l’uomo non vive di solo pane» (pur necessario) ma anche di parole, di realtà, di segni belli e divini.
Le «meraviglie» sono tante, solo che noi abbiamo perso la capacità di «meraviglia». Lo scienziato Albert Einstein (1879-1955) scriveva nel saggio-testimonianza Come vedo il mondo: «Chi non sa più provare né stupore né sorpresa è come morto; i suoi occhi sono spenti».
Gianfranco Ravasi