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Il rituale che attraversa il Gargano e il Mezzogiorno d’Italia, riconducibile alla tradizione greca e al mito di Erigone. Perché la “pupa di pezza”, vestita con costumi tradizionali, viene “impiccata” l’ultimo giorno di carnevale.
Se le origini e il significato del Carnevale sono note, le conoscenze sulla “pupa impiccata”, conosciuta a Cagnano come Quarandanna, a Monte Sant’Angelo come Quarandène, a Sannicandro e a San Giovanni Rotondo come Quarandana, lo sono un po’ meno. Per fare più luce sul rituale, che attraversa il Gargano e il Mezzogiorno d’Italia, Leonarda Crisetti attinge dai dati raccolti tramite una ricerca condotta con gli alunni di prima media della scuola “N. D’Apolito” di Cagnano Varano, pubblicata nel 1995 nella monografia “Quarandanna, la pupa impiccata” a cura dell’Associazione culturale L’Alternativa
La festa di Carnevale (termine di origine latina che vuol dire “carnem levare”), affonda le radici nell’epoca greco-romana quando una volta l’anno, nei giorni dei baccali e saturnali, era permesso al popolo di fare baldoria, abbuffarsi, travestirsi, sfrenarsi, o, come dicevano i romani, “Semel in anno licet insanire”. Il rito della Quarandanna è riconducibile alla tradizione greca e si riallaccia al mito Erigone, che nell’etimo vuol dire figlia della primavera, colei che genera, e nel significato richiama la condizione dell’adolescente.
Tra Carnuuale e Quarandanna c’è un rapporto di parentela, essendo Quarandanna moglie di Carnevale, come vuole la narrazione cagnanese. A tenere insieme questi rituali è, inoltre, una relazione di successione temporale: il rito della Quarandanna era praticato nella notte infatti di martedì grasso. Entrambe le feste infine s’innestano nella tradizione cristiana, che è andata surclassare i riti e i miti precristiani, inglobandoli e cambiandone il nome. Ci sono perciò anche differenze tra i due termini perché se Carnevale evoca la sfrenatezza, quello di Quarandanna, che è sinonimo di Quaresima, indica giorni di penitenza, di digiuno, di astinenza anche sessuale.
COSTRUIAMO LA QUARANDANNA, ESPERIENZA REALIZZATA CON GLI ALUNNI
Nell’anno scolastico 1994, docente di lettere alle scuola media “N. D’Apolito” di Cagnano Varano, per interessare i ragazzi di 1° media allo studio del mito e fare in modo che la conoscenza non evaporasse facilmente, li ho coinvolti nell’esperienza della Quarandanna, “la pupa di pezza” che abbiamo vestita con i costumi tradizionali e “impiccata” l’ultimo giorno di Carnevale.
Cosa significa Quarandanna? Chi/cos’era la Quarandanna? Come si faceva? Cosa si faceva con essa? Perché si faceva? Sono state queste le domande con le quali ho cercato di incuriosire i giovani studenti, che hanno intervistato nonni, vicini, comari, i docenti forestieri, per raccogliere dati.
Cosa significa la parola Quarandanna ?
Per la maggior parte degli intervistati Quarandanna vuol dire “Quarant’anni”, per alcuni il termine significa “quaranta giorni”, quelli della “Quaresima”.
Chi era Quarandanna?
Quarandanna era la moglie di Carnevale. Nella vita tutti i giorni era impegnata a filare la lana per pagare i debiti del marito ubriacone.
Che cos’era la Quarandanna? In che consiste il rituale? Quando si faceva la Quarandanna? Quarandanna era una pupa di pezza, confezionata in genere di anno in anno dalle donne prima che terminasse il Carnevale, vestita con i costumi del luogo nei colori scuri ( giacche, gunnèdda, zenale, tuccate ’ngape), fuso in mano e conocchia alla cintura.
Cosa si faceva con la Quarandanna? Che fine faceva la pupa?
Quarandanna veniva impiccata l’ultimo giorno di Carnevale, dopo avere bruciato il fantoccio o averlo gettato in un burrone, sospesa su una corda tesa in genere tra un capo e l’altro della strada. In altri paesi penzolava sulla finestra, oppure sulla mezza porta per tutto il tempo della Quaresima. I bambini di Cagnano che passavano, la deridevano da sotto: “Povera Quarandanna!”
Perché si faceva questa pupa di pezza?
Quasi tutti gli intervistati hanno risposto: “Perché cosi si usava”. Gli anziani hanno detto, inoltre, che ce n’erano tante per tutto il paese, che le rubavano pure, ma chi aveva subito il furto andava a cercarla: “Vuna pe ogni capestrata; ce l’arrubbàvene e nuja la javame a truvà”.
Ciascun alunno ha quindi realizzato la propria Quarandanna e infine tutti insieme siamo andati a impiccare la Quarandanna in via Giardinetto, come facevano i nostri nonni.
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IL RITUALE DI SAN GIOVANNI ROTONDO
Per capire meglio il perché del rituale, ci vengono in aiuto i versi di una poesia di San Giovanni Rotondo, che descrivono la pupattola con la corona in mano e la patata con sette penne ai piedi. Ve la propongo:
Sope ‘na funastràdda
Ce sta nu pupappàdda
Cu ssètte pènne e nna patana sdutta
E ccu nnacròna mmane.
La vória la fracca
La nfàunne tutta l’acqua
Ejjèssa persuuasa vundulàja
Pe ssètte settemane
La Quarandana.
P’àugne ssettemana
La lèvene ‘na pènna.
Suspìrene li ggiùvene e li uagliune
Cu pazijènza, chiane chiane,
la Quarandane.
E ll’omme che la vède
Ce lèva licappèdde
E ddice nu zinne a llu vecine
E cc nna faccia strana
La Quarandana.
E ppe tutte li nutte
E lli jurnate sane
Prèga la ggènde
E ppenetènza faje,
pe ssètte settemane, la Quarandana.
I versi di San Giovanni Rotondo ci offrono l’immagine di una Quarandana cristianizzata, simbolo della Quaresima. Colpita dalla pioggia e dal vento, la pupattola dondola decisa [“persuasa venduleja”] per tutto il tempo sopra una finestra, mentre i giovani che passano la guardano e sospirano, la gente prega e fa penitenza. Porta in mano una coroncina del rosario e poggia i piedi su patata con 7 penne, che venivano estratte una per settimana fino a Pasqua, fungendo da calendario.
Le filastrocche di Cagnano e di Sannicandro ci presentano, una Quarandanna bruttina, con la bocca storta che digiuna mangiando ricotta.
Quarandanna mussetòrta
Ce ha mmagnate la recòtta.
La recòtta ne gnè ccòtta
Quarandanna mussetòrta.
La filastrocca di Sannicandro Garganico, inoltre, incoraggia i penitenti, ricordando loro che il tempo del digiuno sta per finire: quando sarà Pasqua, potranno mangiare finalmente anche i formaggi meno magri:
Quarandana vòcche tòrta,
Ne nde magnanne cchiu rrecòtta
Quanne arrìve Pasquarèlla
Te magne rrecòtta ndrecciata e scamurzèlla.
A Sannicandro, infine, la notte di sabato santo, slegate le campane, veniva estratta l’ultima penna di gallina dalla patata e si distruggeva la pupa, gridando con gioia:
Jè ffenuta la mózza e la sana,
fóre, fóre la Quarandana!
La mozza era la metà penna con la quale si contava la prima settimana di Quaresima, che iniziava mercoledì delle ceneri.
Anche per gli abitanti di Monte Sant’Angelo la Quarandéne, raffigurata con il muso di un cane (“muse de chéne”) indica il tempo della Quaresima, come ricordano i versi là dove recitano che le macellerie sono rimaste chiuse [Sò sserréte lu wucciarije]. Era allora vietato mangiare carne, tranne che ai malati e alle puerpere:
Quarandéne muse de chéne
E mmùzzeche la lénghe a lli quatrére.
Sò sserréte lu vvucciarije
E ppe quarantasétte dije.
Gli elementi simbolici evocati dai versi di Monte Sant’Angelo [“muse de chéne”, “mmùzzeche la lénghe a lli quatrére” ] consentono però di effettuare una chiave di lettura più profonda, di ipotizzare che il rito della Quarandanna fosse più antico, riconducibile al mito di Erigone che vale la pena ricordare.
IL MITO DI ERIGONE E L’IMPICCAGIONE DELLE ADOLESCENTI
Il rituale di appendere bamboline, imitando l’impiccagione, è nato prima della venuta di Cristo, in Attica, regione della Grecia, ed è riconducibile a Erigone, figlia di Icario, un pastore che, per avere ospitato Dioniso [il nostro Bacco] ricevette in dono del vino e un tralcio di vite.
Icario volle fare assaggiare la gustosa e inebriante bevanda ai pastori della sua regione che, avendo ecceduto nel bere, si ubriacarono e, credendo essere stati avvelenati con quella bevanda, lo uccisero. Avvedutisi dell’errore, i pastori si pentirono e nascosero il cadavere, senza dargli degna sepoltura.
L’ombra d’Icario, che vagava senza pace, apparve in sogno alla figlia Erigone, che venne a conoscenza dell’accaduto. La giovane, che era molto legata al padre, insieme al cane Maira si mise quindi alla ricerca del cadavere, per dare al padre sepoltura che meritava, e solo dopo mesi lo trovò. Vinta dalla paura di restare sola e sopraffatta al dolore, Erigone si tolse infine la vita, impiccandosi ad un ramo dell’albero sotto al quale aveva prima sepolto Icario. Maira, il cane di Erigone, lasciò morire anch’esso, ai piedi di quell’albero, senza più mangiare.
A memoria dell’evento sfortunato, Zeus avrebbe poi trasformato Icario nella costellazione di Arturo (Boote), Erigone nella costellazione della Vergine e Maira nella costellazione del Cane (Canicola). Configurazione astrale che spiegherebbe il senso dell’immagine evocata verso della filastrocca di Monte Sant’Angelo là dove menziona il cane [costellazione del Cane Minore] che morde lingua ai bambini [per la sua vicinanza al segno dei Gemelli].
Il Mito vuole inoltre che Erigone, prima di impiccarsi, augurasse la sua stessa fine alle vergini ateniesi, se non avessero vendicato la morte di suo padre. Maledizione che produsse i suoi effetti, perché dopo la morte di Icario e di Erigone, in Atene numerose giovani donne si suicidavano, impiccandosi.
L’evento drammatico causò una grande problematica sociale perché con le morti delle adolescenti si sarebbe interrotto il ricambio generatole. Fu quindi consultato l’oracolo di Apollo, il cui responso fu di non di dimenticare il sacrificio di Icaro e di Erigone, di punire i loro assassini, di istituire una festa in onore della giovane donna, di offrire primizie durante la vendemmia a padre e figlia.
Il poopolo ateniese, per placare l’ira di Erigone e per e cessare l’epidemia suicida, decise quindi di istituire le Aiòra e di festeggiare tra febbraio e marzo di ciascun anno, nello stesso periodo in cui si celebravano le Anthestéria in onore di Dioniso, spillando il vino novello [il periodo in cui festeggiamo il Carnevale].
Nacque, così, ad Atene la tradizione di appendere delle altalene agli alberi dove le fanciulle si lasciavano dondolare, per simboleggiare l’impiccagione di Erigone ed esorcizzare l’istinto suicida. Alcune varianti narrano di uomini ateniesi che si appendevano alle corde e si lasciavano andare avanti e indietro e, siccome, alcuni di essi cadevano, furono sostituiti dalle loro immagini (mascherine) che si facevano dondolare, sospese alla corda come le nostre pupe di stoffa.
LA VERITÀ SOTTESA AL MITO
Mito complesso quello di Erigone e Icario che, narrando il dono del vino, l’uccisione di Icario, il suicidio di Erigone, il suicidio delle vergini ateniesi, intenderebbe spiegare la resistenza del popolo al cambiamento (che Dioniso avrebbe provocato col dono del vino), ovvero, la transizione da una società di pastori a una di contadini; l’importanza della famiglia, che è l’elemento primordiale della società, il luogo in cui si determina la continuazione della specie; il ruolo della donna alla quale la società greca agro-pastorale riconosceva l’importante compito di procreare e di assicurare il ricambio generazionale; le difficoltà, le paure, i dubbi della donna adolescente che – come Erigone – teme soprattutto di restare sola senza la sua famiglia e di non riuscire realizzare la sua massima aspirazione, quella di dare alla luce i figli.
DAL MITO AL RITO
Mito che richiese la messa a punto di un rito che ha svolto due importanti funzioni: una sociale, volta ad agevolare la separazione [della figlia dal padre], quindi, il passaggio da giovane vergine a donna coniugata, aiutando le adolescenti a superare ancestrali paure ed esorcizzare l’istinto suicida; una economica, espressa dal dono della vite fatto da Dioniso al padre di Erigone e ai pastori, per agevolare il passaggio da una società di pastori ad una società contadina.
Il rito dell’impiccagione che – come ogni rituale – consta di sequenze ordinate, reiterate nel tempo a scadenza fissa, prevedeva l’allontanamento dalla terra e la sospensione nell’aria (isolamento necessario per non farsi contaminare e ritornare alla vita con più energie), l’oscillazione (mezzo utile per consentire di liberarsi dalle negatività dell’esistenza), la morte (impiccata o briciata). Elementi tutti presenti nel rito della Quarandanna, insieme all’aria, all’acqua e al fuoco che sono simboli di purificazione.
Ci sono analogie tra Quarandanna è Erigone: entrambe si isolano, allontanandosi dalla terra, oscillano sotto i colpi del vento e dell’acqua e infine muoiono, per consentire il ritorno alla normalità; tutte e due scelgono la forma dell’impiccagione: Quarandanna dopo la morte del marito ubriacone, come narra la tradizione cagnanese, Erigone perché non riesce a vivere da sola, dopo che i pastori ubriachi le uccisero il padre.
Esistono però anche delle differenze e se il rito originario narra le paure ancestrali dell’ adolescente, soprattutto quella di non poter procreare, quello cristianizzato, che evoca la Quaresima, racconta alla giovane donna deve essere sottomessa e casta.
IL RITO HA VIAGGIATO
La prima Quarandanna della storia dovette essere pertanto Erigone. Il rito ha poi viaggiato ed è giunto nei paesi del Mediterraneo probabilmente all’epoca della colonizzazione greca, superando le coordinate spazio temporali, dato che fu riconosciuto e reimpiegato anche nel contesto del Gargano, per il fatto che nella società di pastori e contadini del promontorio trovò le stesse matrici culturali della regione in cui era nato.
Con il cristianesimo, non potendo sradicare il rito, lo mutuò, celebrandolo nello stesso periodo dell’anno e simulando l’impiccagione, apportando però alcuni cambiamenti. Il rito fu replicato finché durò la civiltà contadina, perché in quelle matrici culturali aveva un senso, per rivivere e ricreare il mito, racconto regolativo dell’ethos e dei costumi di un popolo. Quando, con l’industrializzazione, la donna fu più libera e il suo lavoro retribuito, allorché le furono riconosciuti anche ruoli “altri”, il rito della Quarandanna non ebbe più ragione di esistere. Le ultime pupe di Cagnano furono “impiccate” infatti negli anni Sessanta del secolo scorso, fatta eccezione per alcuni tentativi di riesumare la tradizione da parte delle scuole e delle associazioni nei decenni successivi.
I RITI DI PASSAGGIO COME OCCASIONI PER RIFLETTERE SULLA PROPRIA CONDIZIONE
La domanda è a questo punto: “Ha senso oggi riproporre il rito della Quarandanna?” Se pensiamo di ricreare le radici culturali che lo hanno originato, la risposta è negativa. Se invece andiamo con la mente al significato originario, che è fondamentalmente un rito di passaggio dell’adolescente alla vita adulta, e- per suo tramite- alla possibilità di concedere ai soggetti in crescita spazi utili per dare fiducia, rasserenare, riflettere sulla propria condizione, allora avrebbe un senso. Gli adolescenti, maschi o femmine, anche i figli della civiltà tecnologica e conoscitiva, che amono paragonare alle moleche- stadio del granchio quando è privo della corazza – sono molto vulnerabili, perché privi delle difese che nascono con l’età e con l’esperienza. Essi vivono le ansie di sempre: hanno paura di non riconoscersi guardandosi allo specchio, temono di non trovare l’amico/a o l’amore della vita, vivono il timore di non riuscire a realizzarsi, di diventare capri espiatori dei bulli, di non riuscire a diventare forti e indipendenti come gli adulti, di non essere apprezzati dai compagni e dagli insegnanti. La condizione degli adolescenti è oggi di fatto più difficile, sia perché essi sono più liberi e più esposti al canto ammaliatore delle nuove “sirene”, sia perché, mancando nella nostra società i riti d’iniziazione, vivono da soli la transizione.
Agli amici, ai docenti, ai genitori, alle istituzioni, a me stessa, vorrei perciò suggerire di mostrare più interesse verso i bisogni dei giovani in crescita, di prestare ascolto, offrire opportunità e sostegno adeguato agli adolescenti, affinché “il limitare di gioventù” non sia per essi traumatico.
Leonarda Crisetti
l’attacco