A piccole comitive, arrancando sulle murge e sui ciottoli che affioravano nelle contorte e ripide stradicciuole, le ragazze del paese raggiungevano, all’imbrunire, la Chiesa Madre per ascoltare la parola del sacerdote che, con caldo eloquio, glorificava ogni sera la vita e le virtù di Maria.
Sul cocuzzolo del colle, il tempio elevava al cielo il suo ardito campanile seicentesco, che sembrava dovesse cadere da un momento all’altro tanto pareva costruito a perpendicolo sul deciso pendio al quale si aggrappavano le umili case degradanti.
In quel maggio pieno di promesse agresti e di tepore snervante più numeroso degli altri anni era l’afflusso delle donne alle prediche serali perchè la Madonna, portata in processione per tutto il paese, aveva ripetutamente operato il miracolo della pioggia. E poi il predicatore era bravo, giovane, e le sue parole scendevano al cuore musicalmente; ed un’ora passava lesta.
La chiesa, troppo ampia per le funzioni serali del mese mariano, s’empiva solo a metà. Di uomini ve ne andavano pochi; i lavori li trattenevano nei campi fino a tardi e le spose dovevano accudire alle faccende domestiche per far trovare pronto il desinare, quando rincasavano affamati, dopo una giornata di lavoro ed i grami pasti di « pane e coltello ».
Così le ragazze, le bizzochere, qualche donna anziana e pochi uomini formavano il pubblico di quelle funzioni.
* * *
S’era a maggio inoltrato, ed una sera…
La chiesa era per metà vuota, e, verso l’uscita di fondo, avvolta nella penombra, mentre tutto un arco di luci circondava la statua della Madonna che sull’altare maggiore troneggiava sorridente e materna, con il Bambino sul braccio sinistro ed ai piedi una selva di fiori sui marmi consacrati.
Il sacerdote parlava delle grazie della Madre celeste, s’entusiasmava nella fede pura e forte, trasfondeva nell’uditorio la sua passione, commuoveva nella rievocazione del divino amore, esaltava nella gioia infinita di una vita di gaudio ultraterrena.
Non un respiro turbava il silenzio, mentre le teste immobili delle donne, coperte da fazzoletti variopinti, davano la impressione di un campo di fiori e sui volti traspariva il raccoglimento interno. Ed anche l’aria era immobile come tutto nel tempio.
Ad un tratto però nelle prime file delle sedie, si notò un ondeggiare discreto di teste, un’accostarsi fra vicine, un sollevare di ginocchi, un guardarsi sbigottito e preoccupato. Poi rapidamente il movimento si propagò alle file successive ed in breve tutto quel pubblico femminile fu agitato e distratto ed un mormorio, da principio represso e contenuto, aumentò gradatamente mentre il sacerdote si sforzava di rendere più alto il tono della sua voce per richiamare l’attenzione e far ritornare il silenzio. Inutilmente. Qualche forza ignota aveva rotto l’incanto.
Una signora anziana e molto devota, si alzò di scatto, prese per mano il nipotino che la guardò attonito, e si avviò a passo affrettato verso l’uscita, voltandosi spesso con aria sospettosa.
Fu quello il segnale perché altre donne si alzassero, altre ancora ne imitassero l’esempio ed in un minuto tutte fossero in piedi. E cominciò il tafferuglio.
Il sacerdote cercò ancora di irrobustire il tono della sua voce, di trovare accenti più commoventi e frasi più suggestive, ma ormai una parola sovrastava il suo dire ed il rumore delle sedie smosse: il topo… il topo. Qualche strillo malamente represso si ripercosse sotto le navate, altri fecero eco, il tafferuglio divenne generale ed incominciò raffrettarsi per guadagnare l’uscita, come se un grave pericolo minacciasse quell’umanità spaventata.
* * *
Presso la porta, il gruppo dei pochi uomini sorrideva divertito. In esso era Rocco, che con un’aria scanzonata assisteva alla fuga delle donne, senza però abbandonare con lo sguardo le mosse di Cecchina, bella bruna dai capelli crespi che cercava di farsi largo fra le altre ragazze per mettersi al più presto in salvo dal temibile nemico. Era diventata insolitamente pallida ed i suoi occhi neri, sempre vivacissimi, sembravano smorti.
Rocco le andò incontro verso il centro della chiesa; e quando le fu vicino, Cecchina si sentì mancare e quasi di peso si lasciò sorreggere dal braccio con il quale l’amato le cinse la vita. Ed in quell’istante Rocco benedisse il topo e credette di essere in paradiso. Ma aveva fatto con il suo dolce peso su un braccio e le mani di Cecchina nella sua mano destra quasi sul petto della sua bella, pochi passi, quando sentì arrampicarsi su per una gamba qualche cosa che non apparteneva nè al suo corpo nè a quello dell’amata.
Una cosa che dava un solletico curioso, che si fermava, che riprendeva l’ascesa, indecisa quasi a scatti, stranamente calda e morbida e saliva su su fino al polpaccio, al ginocchio e più su ancora quella cosa strana, quando Rocco capì che il topolino, spaventato da tutto quel trambusto, aveva cercato rifugio nei suoi calzoni. Cercò di non tradire la sua emozione, ma non gli fu possibile.
Il braccio sinistro abbondò la stretta, la mano destra lasciò le mani dell’amata, Cecchina rinvenne quasi per incanto e si vide Rocco iniziare, presso l’uscita della Chiesa, una specie di pantomima nella speranza di far cadere il topo dalle altezze che aveva raggiunto. Così, saltellando, uscì dal tempio fra i frizzi degli uomini, i sorrisi malcelati delle donne ed i furori di Cecchina. Da quel giorno Rocco fu soprannominato il topo e Cecchina non volle più sposarlo per non essere chiamata col sostantivo con il quale viene popolarmente conosciuta la femmina di tale mammifero.
Giuseppe D’Addetta
Scrittori Dauni – 1960 –
(1 continua)