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VIESTE, I VIESTANI, LE STORIE, LE TRADIZIONI IN VERSI. GAETANO DELLI SANTI CHE LEGGE E STUDIA LO ZIO GAETANO DELLISANTI. A VIESTE DOMENICA 21 AGOSTO DALLE ORE 21 ALLA “CORTE D’ELITE” NEL PALAZZO MUNICIPALE

Nel corso della manifestazione “LA SERENATA DELLA TARANTELLA”, che si svolgerà a Vieste dal 19 al 25 agosto, tanti gli appuntamenti in programma. Quest’anno, dopo il convegno dedicato a Matteo Salvatore, della scorsa edizione, la figura garganica che sarà riportata sotto le lenti d’ingrandimento sarà dedicata al poeta viestano Gaetano Dellisanti. Il titolo dell’incontro: ISTANTANEI DI SCENARI SOCIALI NELL’IRONIA DIALETTALE DELLA POESIA DEVIANTE DI GAETANO DELLISANTI. Vedrà come ospite, tra gli altri, lo scrittore e critico di arte Gaetano delli Santi, nipote del poeta “TANINO”.

“Gaetano Dellisanti ha messo a disposizione di intere generazioni e di molte altre che verranno un patrimonio inestimabile, fotografando un periodo della nostra storia, altrimenti sconosciuto. Le sue poesie e le sue prose sono l’espressione della cultura popolare viestana, un bene prezioso che alimenta la curiosità e la voglia del sapere, laddove la descrizione della viestanità è sempre puntuale e partecipata, proprio in quanto l’autore conosce ed ama i suoi luoghi e i personaggi, e scrive perché altri li conoscano e li amino, nel tentativo di far crescere un senso civico critico nella gente comune. Il tutto con il prevalente utilizzo del dialetto, parte del bagaglio culturale che ognuno di noi porta sulle spalle ed inevitabile segno di appartenenza ad un certo luogo, ad un certo tempo e che ci identifica e ci colloca in un posto preciso della nostra storia personale. Perché amare il dialetto, usarlo nel nostro quotidiano, insegnarlo ai nostri figli, significa amare noi stessi, significa essere possessori di una grande eredità: l’eredità della nostra storia.”

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 DELLI SANTI E IL PLURALISMO PIU’ FORTE: QUELLO CHE HA SUBITO QUI, DALLA SUA TERRA

Quando incroci una figura come quella di Gaetano delli Santi, attarverso un altra figura, quella di suo fratello nini delli Santi,capisci di essere di fronte a qual­cosa che non accade per caso. Sarebbe diffi­cile in poche righe spiegare dell’uno e dell’al­tro e sarebbe irriverente provare a farlo, quan­do uno, Gaetano, ha un curriculum impossibi­le da sintetizzare e l’altro ha speso e spende la sua vita per il territorio. Prerogativa di famiglia, visto che il loro padre e il loro zio, ma anche il resto della famiglia, hanno avuto la lucidità di formarsi in materie letterarie, storiche, filoso­fiche e amministrative. Dopo sette lunghi anni Gaetano torna a Vieste, con una paura – quel­la di vedere cambiamenti e stravolgimenti – una speranza, quella che alla domanda sulla questione culturale a Vieste gli fa rispondere così: “per quello che mi giunge sul ritrovato at­tivismo e fermento delle tante associazioni na­te, il futuro lascia ben sperare”. Alla fine capi­sci perchè il suo curriculum va dalla letteratu­ra, alla scrittura, fino alla pitture e alla scultu­ra. E’ lui a spiegarlo in maniera chiara e semplice, come gli ha insegnato suo zio: “Il mio la­voro rispecchia il territorio, è un groviglio, come la Foresta Umbra e tutto il Gargano”.

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Mi impongo di conoscere ciò che gli altri mi dicono di lasciar stare e scopro un mondo straordinario. L’avan­guardia? Inizia dal Barocco, prosegue con il Rinasci­mento e poi arrivano le avanguardie storiche”.

Migliaia di pagine per ogni settore, dalla drammaturgia al­la filosofia, fino alla narrativa, quelle lette e quelle scritte, così come suo padre gli ripeteva sempre tenendolo per mano da piccolo. “Non puoi scrivere di un autore – gli di­ceva – se non hai letto almeno la sua opera omnia”. E lui, da figlio attento, così ha fatto, andando in crisi. Una crisi produttiva, che ha fatto oggi di Gaetano delli Santiuno straordinario interprete del pluralismo. Nato a Vieste nel 1959. Vive a Milano. Opera nel campo della scrittura co­me poeta, narratore e critico; e in quello delle arti visive co­me scultore e pittore. Infiniti tocchi cromatici animano an­che la sua voce. Sorride, fa pause, riflette, gioca con le parole. E’ una lectio, la sua, senza volerlo. Mentre ti dice diamoci del tu, sembra par­li di poesia e di scrittura e invece è già diventata pittura. “Sto lavorando come un pittore. Ogni volta che scelgo un argomento, scelgo le parole e i colori che possono dare meglio quell’effetto. L’idea è di lavorare a livello cromati­co e materico, come faceva D’Annunzio. Fu messo all’in­dice perché la sua scrittura è sensuale, perché parla di sensualità in maniera chiara”. Questo aspetto lo ha ap­preso consapevolmente o meno – in alcuni tratti è gene­tica – dallo zio, suo maestro non solo nel mestiere, ma an­che a scuola. “Nelle sue opere c’è l’analisi e la ricerca di parole specifiche, lo sforzo di riuscire a toccare la perso­na, per trovare nella scrittura un aspetto fisiognomico, ca­ratteriale, diverso da quello che si vedeva della persona. Lui costruiva un apparato linguistico particolare per ognu­no, non si ripete mai. Lavora sul tema e ogni poesia ha un tema diverso. E se il tema è simile, lui tratta l’argomento in maniera sempre diversa con linguaggio e anche de­scrizioni”.

Zio e nipote, ma anche padre e figlio, fratello e fratello, fra­tello e sorella. La famiglia delli Santi determina la forma­zione di Gaetano. Suo padre, che gli ripeteva di ricordar­si di Giordano Bruno, che glielo presentava sempre co­me una figura grandissima, e i fratelli, che dalla filosofia al dialetto gli forniscono esem­pi e stimoli costanti. Ma più di tutti lo zio-maestro che ha de­dicato la sua vita alla forma­zione e alla cultura. “A scuo­la, in classe ci spiegò come disegnare il faro. Disegnate il filoncino, ci disse, quello che la mamma compra dal forna­io. Poi ci mettete sopra un pezzo di sapone. E poi anco­ra, sopra al sapone, una candela. Lui aveva una chiarez­za d’espressione sconvolgente, come mio padre aveva una capacità oratoria incredibile e mia sorella ha una straordinaria propensione alla filosofia”.

Gaetano delli Santi sta per tornare a Vieste, dopo anni in cui è volutamente rimasto lontano. “Come tutti quelli che abitano fuori, dice, conservo un rapporto di odio e amore con Vieste”. L’ama, per la terra meravigliosa che è. Il Gar­gano ha un ecosistema in cui c’è tutto. E quel pluralismo territoriale, lui se lo porta dietro e dentro per sempre. “So­no partito da quello e ho sviluppato l’idea di un plurilingui­smo portato all’eccesso, all’estremo, attraverso la ricer­ca etimologica delle parole dall’antichità ad oggi. Dal dialetto del Duecento fino alla contemporaneità, compresi quei modi di dire dei giovani. E molti non hanno capito che non si trattava di parole inventate, ma del ritorno di espressioni dialettali del passato”. Lui stesso insegnan­te, e frequentatore dei mondi giovanili, oggi ricorda con il sorriso i suoi periodi da studente, quando era lo zio il suo maestro, per tutte le materie. “Mi diceva che dovevo es­sere ancora più attento degli altri, perché ero suo nipote e a quei tempi si usava ancora la bacchetta. Non per puni­re o fare male, lui la usava per sottolineare a volte comportamenti scorretti e io, una sera, insieme ad altri com­pagni, sono entrato a scuola e abbiamo fatto un blitz per rubargliela”. Il dialetto di Vieste e Peschici, il dialetto che cambia in pochi chilometri e che è influenzato da francese, inglese, greco, spagnolo, latino, croato è un grovi­glio di lingue.

“E’ come la nostra Foresta Umbra”, dice, a sottolineare la corrispondenza fra paesaggio e produzione linguistica. “Vieste l’ho odiata negli anni 70, quando da ragazzo ho visto gli scempi sul piano dell’urbanistica, l’esplosione economica arrivata con le strutture ricettive, quando ognuno pensava al suo piccolo orticello da coltivare. E in­vece chi ama la sua terra, la deve lasciare ricca di perso­ne buone, di principi onesti.

Le persone erano intelligenti, volenterose, lo ricordo che alle quattro del mattino ascoltavo il rumore degli asini e dei muli che andavano in campagna. Era una civiltà uma­na prima di diventare una civiltà spietata, in cui ognuno pensava ai propri affari- ed è in questo contesto che mio zio ha sempre lavorato, mettendo alla berlina, facendo ironia un po’ pesante un po’ scherzosa, attaccando i poli­tici di allora”.

Gaetano racconta di una infanzia umana che si è persa, come è accaduto in tutta Italia, nei posti che hanno dovu­to cedere al turismo: “Se non si costruiscono le basi per mantenere una propria cultura, si rischia di perdere l’ani­ma del luogo. Ogni volta che venivo a Vieste e poi riparti­vo, mi portavo dietro il ricordo dei tramonti e delle albe vis­sute di primo mattino, con l’amico di sempre, con cui ci fa­cevamo trascinare dal canot­to fino a Pugnochiuso, entra­vamo nelle grotte e stavamo lì a osservare i colori, il plurali­smo cromatico che cambiava col passare del tempo.

E questo mi ha insegnato che noi siamo mondo, che siamo dentro questo flusso, come nella natura, così a livello so­ciale. Io la ricchezza del Gar­gano me la sono ritrovata dentro. Osservavo il mare in tramontana, con colori stu­pendi. E la burrasca, che ispi­ra e mostra il sublime delle opere dei romantici. Quel ma­re, che anche quando è calmo, mi lascia immaginare una vitalità enorme sotto di esso. Ecco, io quello ho voluto creare a livello letterario. Un contesto etimologico in cui una parola sembra semplice, come un mare piatto, ma sotto ha una vastità di vita e di contenuti da scoprire”.

Lo sguardo sul sociale e la scelta di non scrivere di se stes­si, la condivide con lo zio.

“Lui ha dedicato la sua vita a ritrarre personaggi, ridicoli, che facevano giochi sporchi, piccole furbizie nella comu­nità di Vieste. E li ha messi alla berlina come lui sapeva fare, elogiando invece il povero, il pezzente, il sofferente, l’abusato. E lo faceva con un linguaggio così ironico che

poi quei personaggi te li fa amare lo stesso. Usava la rima baciata ed era una filastrocca, proprio come faceva da in­segnante a scuola, quando ti chiamava all’interrogazione e diceva il tuo nome accompagnato da una originale ter­zina che raccontava tratti della tua personalità o il tuo stes­so modo di stare in classe”.

Il riso. Il sorridere è ancora oggi elemento sociale, battu­ta di spirito che ti porta a guardare fuori da te.

“I nostri esperti di letteratura sono innamorati di coloro che parlano di se stessi e quelli ci propongono a scuola. Noi su questo siamo diversi, lo, zio, mio fratello ninì. E’ un trat­to di famiglia. Ci rivolgiamo a noi, come individui che ve­dono l’altro fuori da sé. E questo sguardo rivolto verso il mondo è quello dovrebbe avere ogni uomo per conosce­re se stesso. Siamo esseri sociali e per questo dovremmo avere rispetto verso gli altri e amare anche il diverso. L’idea è che uno sguardo sul mondo e sul sociale mi aiu­ta a conoscere me stesso. Non è isolandoti che interioriz­zi chi sei, ma solo stando insieme perché crei l’opportuni­tà del confronto. E il pluralismo più forte e determinante è quello che ho subito dalla mia terra”.

Ora quella terra è cambiata ancora: “Ho passato questi giorni in pensiero. Non ci vado da diversi anni e ho soffer­to quando ho visto degli stravolgimenti, fatti anche per in­capacità sia professionale che politica, luoghi stravolti dal cambiamento che ti fanno riflettere su quello che c’è oggi e quello che c’era in passato, lo credo nella trasformazio­ne, ma che sia accompagnata da una maturità sociale. Il turismo porta anche questo.

Porta a cambiare la mentalità in vista anche di concetti co­me guadagni più facili. Per me è ancora una ferita che si dilania.

Ma sono ottimista perché vedo segnali che mi fanno dire che c’è una maturità nuova, più attenta e consapevole. Che ci sono persone e associazioni che hanno capito che bisogna conservare una memoria della propria terra, non bieca, né ricurva su se stessa”

tommy guerrieri

l’attacco