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VIESTE ANNI TRENTA –CRONACHE DI SCUOLA E DI VITA TRA LA PACE E LA GUERRA D’AFRICA (4)

Si celebra la “Marcia su Roma”

28 ottobre: data fatidica per la storia d’Italia e, si dice, del mondo. Su tutti i documenti, sulla corrispondenza, nei compiti di scuola, accanto alla data secondo il calendario cristiano si segna l’anno dell’era fascista, che inizia il 28 ottobre del 1922.

A scuola si fa festa. Tutto il paese è in festa. Questo che segue è il resoconto della giornata. “Stamani è stato celebrato il XIII annuale della Rivoluzione delle camicie nere. In un importante corteo, composto di autorità, maestri, fascio e associazioni, ci siamo recati alla cattedrale ove si è celebrata una messa in suffragio dei martiri fascisti. In piazza Vittorio Emanuele, il segretario politico ha letto il messaggio del Duce. Nelle ore pomeridiane il corteo si è ricomposto ed è andato a deporre una corona di fiori sulla lapide dei Caduti, vicino alla quale montava di servizio la Guardia d’Onore”. Quella lapide c’è tuttora, allo stesso posto, sulla facciata principale del municipio al corso Lorenzo Fazzini. Reca incisi i nomi dei soldati viestani morti in guerra o per causa di guerra – la prima guerra mondiale – , in tutto 108. Sotto la lapide si legge l’epigrafe: “A me­moria dei prodi concittadini che caddero per la grandezza d’Italia. MCMXV- MCMXVIII”.

Naturalmente del 28 ottobre si parla anche a scuola, agli scolari. E que­sto è il seguito: “Come at­testa il diario delle alunne, in classe ho letto il Mes­saggio del Duce, trascri­vendo sulla lavagna la se­guente frase: Questa è l’epoca in cui un popolo misura al metro delle forze ostili la sua capacità di re­sistenza e di vittoria”

Uno squadrista per caso

Nei cortei patriottici, come quello appena descritto, un posto di evidenza lo hanno gli squadristi, i quali quando indossano la divisa fa­scista portano sulla manica un filetto rosso. Dei cittadini di Vieste, che io sappia, l’unico squadrista è stato l’ingegnere Lorenzo Diana. Siamo stati abbastanza da vicino, non nel suo tempo storico, ma nei decenni suc­cessivi, a volte a parlare di cose ine­renti alla nostra città, altre volte a fare conversazione leggera fine a se stessa.

Come i piià sanno avevano la qualifica di squadristi – molto consi­derata durante il fascismo – gli iscritti al partito da prima che andasse al potere, cioè prima del 28 ottobre 1922, e anche persone senza la tessera del partito che avevano partecipato con le “squadre d’azione” fasciste ad azioni contro i partiti di sinistra.

L’ingegnere Diana aveva un bel carattere, aperto, disponibile, tollerante, capace di autoironia. Dato un tale carattere, mi aveva meravigliato sapere che a suo tempo era stato squadrista. Così, una mattina che ci trovavamo seduti a un tavolino davanti al bar Pierrot, volli parlargliene. “Hai ragione di stupirti – mi rispose – anzi ti aggiungo un’altra chicca nel senso che pensi.

Io ho fatto il militare nell’esercito con il grado di sottotenente. Finita la ferma, sai cosa ho letto sul mio foglio di congedo? Che ero lavativo (in realtà usò un altro termine, più elegante che non ricordo, ma il senso era quello) e che non ero tagliato per la vita militare. Ci sorridemmo su. Poi prese a raccontar­mi come fu che divenne squadrista.

Aveva fatto l’Università a Torino, dove si era laureato ingegnere e, dopo il servizio militare, se ne era venuto a esercitare la professione a Vieste. Qui era convolato a nozze con la giovane viestana Raffaela Spina. Passa qualche anno. Una mattina che era andato a far visita ai familiari della moglie, nella loro casa in piazza Roma, vede dalla finestra, giù, vicino al portone, il “pittore” Zaccagnino (soprannome di Caizzi Gaetano) che ha appoggiato al suolo il secchio dei colori e il pennello e sta armeggiando con la scala per appoggiarla al punto giusto della parete a lato del portone. L’ingegnere intuisce di che cosa si tratta, scende giù e lo redarguisce: “Tu, come ti permetti di imbrattare i muri delle case, chi ti ha autorizzato?!…”. Il pittore tenta di spiegare, ma l’ingegnere non gli dà modo di parlare, gli ingiunge di non provare a mettere il pennello sulla facciata della casa e se ne va senza sentir ragione. Se ne va anche Zaccagnino. Doveva scrivere una frase del duce, incaricato dal segretario del fascio Alfonso Cimaglia. Diana l’aveva capito, ma non glielo aveva lasciato dire. Per inciso, ricorderò che una di quelle frasi, scritta in quel tempo sulla facciata del municipio di Vieste, dopo la caduta del fascismo è rimasta leggibile per molti anni ancora, fino agli Anni Cinquanta. Recitava: “Se per gli altri il Mediterraneo è una via, per gli italiani è la vita. Mussolini”.

La sera Zaccagnino va dal segre­tario del fascio e riferisce l’accaduto.

Secondo giorno. Il segretario del fascio, che è persona che crede in quello che fa, idealista, impulsivo, convoca il direttivo ed espone il caso. In breve: “L’ingegnere Diana si è permesso di dire che le parole del duce imbrattano i muri.

Gli costerà caro. I miei co… andranno a terra se l’ingegnere Diana non va all’ac­qua verde (“acqua verde” era un’espres­sione in voga allora per significare il confino politico su di un’isola, come per esempio le Tremiti, dove venivano man­dati gli oppositori del fascismo non rite­nuti pericolosi).

Terzo giorno. Un consigliere presente alla riunione, Francesco Devita, incontra Diana, o lo va a cercare, data l’amicizia – nei paesi questo succede, forse dappertutto – e si premura di metterlo sull’avviso: “Ingegnò, ieri sera don Alfonso ha detto che…” e gli racconta per filo e per segno come sono andate le cose. L’ing. Diana rimane un po’ perplesso; una reazione se l’aspet­tava ma non in questi termini. Cerca la risposta adeguata, gliene viene una, spaccona “Ah sì, beh digli che già sento il rumore dei suoi co… ruzzolare per terra”.

La sera però è preoccupato, pensa: “Adesso quello lì (il segretario del fascio) farà sicuramente di tutto per mettermi nei guai. La notte, pensa e ripensa, gli viene in mente che una volta, durante gli anni dell’università, a Torino, aveva partecipato con un gruppo di amici universitari ad una spedi­zione nel corso della quale avevano bruciato sulla strada le copie dell’ Avanti di un’edicola. La spedizione finì lì e non ce ne furono altre da parte sua. Ma l’amico che l’aveva guidata, dopo la laurea, a Torino era diventato un pezzo grosso del partito fascista. Così aveva saputo.

La mattina si alza di buon’ora e parte per Torino. Va a trovarlo. Abbrac­cio, scambio di frasi di circostanza, qualche ricordo del tempo della goliardia. Poi Diana gli racconta l’episodio di Vieste, dell’assurda presa di posizione del segretario del fascio locale che ha gonfiato un frainteso tra lui e il pittore per accusarlo di essere un antifascista. Poteva mai esserlo? Chiede all’amico se si ricordava di quando insieme parteciparono all’azione in cui bruciarono le copie dell’Avanti, prima che il fascismo andasse al potere.

 E se poteva rilasciargli una dichiarazione che l’attestasse. Ma certo che se lo ricordava, e gliela fece. Con in tasca la dichiarazione, scritta su carta intestata del fascio di Torino, in cui, dopo le debite premesse, si attestava che “l’ingegnere Lorenzo Diana è squadrista a tutti gli effetti”, la mattina successiva, arrivato a Foggia, si presentava dal prefetto della provincia. Il quale proprio quella mattina aveva ricevuto la relazione accusatoria contro di lui. La piega che prese il colloquio è facile immaginare. Uno squadrista era un fascista della prima ora. Come si poteva non credere alla sua buona fede? Si salutarono con il saluto romano. Il prefetto avrebbe pensato lui a chiudere la questione con il segretario del fascio di Vieste.

Non so come la questione si sia chiusa. Non so se l’ingegnere Diana uscì vittorioso anche nella sostanza oppure no, se la frase del duce venne poi scritta là dove era stato deciso o se venne trasferita sulla casa di un proprie­tario consenziente o meno armato politicamente per potersi opporre. Mi raccontò questa storia solo per spiegarmi come e perché si ritrovò squadrista.

Si dice che tutto è bene ciò che finisce bene.

E’ vero, ma per l’ingegne­re Diana lo fu fino a un certo punto, perché dopo si trovò a fare i conti con una sorta di legge del contrappasso. Pensate, lui, nient’affatto amante della divisa – ricordiamo il suo foglio di congedo – una volta ufficializzato squa­drista dovette rassegnarsi ad indossare la divisa fascista col filetto rosso sulla manica; e poi, lui che in precedenza non era stato molto assiduo alle mani­festazioni del partito, da quel momento – noblesse oblige – dovette andarci sempre.

E questi furono i casi di uno squadrista per caso, incappato nell’anoma­lia di un dissenso – consenso, risoltosi, alla fine dei conti, solo in una stecca nel coro dei consensi.

Le truppe italiane avanzano in Abissinia

Cominciano ad avvivare le prime notizie sulle operazioni di guerra in corso in Abissinia. Il giorno 5 ottobre è occupato il piccolo centro di Adigrat. 11 6 Adua, un nome che è da molti anni nei libri di storia delle scuole italiane. Perciò la sua conquista ha molta risonanza nella stampa nazionale, tra la gente e, naturalmente, nella scuola, come si legge nella seguente nota: “Il paese è imbandierato. La riconquista di Adua ha suscitato grandi manifestazioni di giubilo nella nostra cittadina. Un lungo corteo con musica e vessilli ha percorso le strade principali cantando inni ed inneggiando all’Italia, al Re, al Duce: Non ho trascurato di rievocare la data del 1° marzo 1896 quando i nostri soldati, appena 15.000, furono circondati nella valle di Adua da 110.000 africani. Dei nostri caddero 6.000, altri 9.000 furono feriti. La sconfitta dell’esercito italiano fu dovuta alla grande sproporzione numerica”. Segue una postilla, quasi un nota bene, inteso ad assicurare i superiori del proprio impegno politico: “Il diario delle alunne potrà testimoniare come il giornale venga letto e come assieme seguiamo, passo passo, le avanzate delle nostre truppe”. Come per altri eventi d’attualità, anche alla conquista di Adua viene dedicata una canzone sentimental-patriottica.

Il giorno 15 viene registrata la presa di Axum, “la città santa, la cui fondazione, risale ai primissimi tempi del cristianesimo. Il suo nome è ricor­dato nella storia

romana perché 17

Ascari eritrei combattono a fianco dei nostri soldati.

secoli fa si sono visti gli axumbeti girare per le vie di Roma, cosa che testimonia la grande potenza delle armi romane. La città è stata presa senza sparare un colpo, perché gli abitanti hanno accolto i nostri soldati come liberatori”. Da ogni nota, come questa di un altro registro, traspare l’euforia: “19 ottobre. Que­st’anno ogni commemorazione storica ha un’importanza particolare. Pare di vivere una vita nuova”. E’ il pensiero di una persona da me conosciuta dopo la guerra, nient’affatto disposta a compiacere chi stava in alto, anzi più facile ad esserne in conflitto.

ludovico ragno 2006

4 – CONTINUA