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VIESTE ANNI TRENTA – CRONACHE DI SCUOLA E DI VITA TRA LA PACE E LA GUERRA D’AFRICA (11)

Un conto di ristorante in chiaroscuro

Così potremmo definire il conto di un ristorante cittadino datato 25 marzo 1934 qui a fronte riprodotto, frammento d’epoca casualmente rinvenuto. Un conto curioso per ciò che dice e ciò che non dice ma consente di figurarsi attraverso un giro di domande e risposte ipotizzabili. Primo punto: perché a fianco delle relative voci dello stampato non è indicato, come si usa, il numero delle portate e quindi delle persone sedute a tavola? Stante l’elevato importo totale, lire 67,40, non è credibile che una persona sola abbia potuto mangiare tutto quel ben di Dio. Con una ragionevole approssimazione si può arguire il numero correlandolo al costo del pane e a quello del vino, più o meno vicino al pane. Diciamo del pane. Nel conto figura per lire 4,20. Tenuto conto che in quel tempo si vendeva a 1,70/ 2 lire al chilo, ne deriva che poterono essere stati consumati un paio di chili di pane, cioè una quantità sufficiente per 4/5 persone, forse 6. Secondo: e chi erano i commensali? Non c’è scritto alcun nome, e doveva esserci, visto che il conto fu mandato al Comune per il pagamento, giusta la postilla apposta in calce dal segretario del fascio: “a carico spese elettorali”. Per comprendere questa postilla occorre ricordare che quel giorno, 25 marzo 1934, in Italia si votava per eleggere i parlamentari alla Camera dei Deputati.

E’ probabile che i commensali fossero i componenti del seggio elettorale venuti da Foggia, o altre persone aventi comunque a che fare con le votazioni. Aggiungo per inciso, che quelle votazioni furono le ultime del periodo fascista. Non avevano più senso, in quanto pur essendo espressione del sistema democra­tico, di democratico, nei fatti, avevano ben poco, visto che si effettuavano su lista unica, predisposta dalla direzione del partito al governo. Onde avvenne che alla fine della legislatura, cinque anni dopo, la Camera dei Deputati cambiò nome e composizione, si chiamò Camera dei Fasci e delle Corporazioni. Terzo, il conto non risulta in nessun atto adottato dal Comune nei giorni e nei mesi successivi Evidentemente, il podestà, con tutto il rispetto per il partito, non ritenne di poter pagare quel conto. Conclusione: penso che il lauto pranzo, alla fine se lo siano pagato, magari parecchi giorni o settimane dopo, le persone che se l’erano goduto.

Un ultimo segno d’epoca è possibile leggere su questo foglietto del “Ristorante del mare” di Vieste: riguarda il bollino incollato al centro con l’effige della Madonna di S.Maria di Merino. I negozianti lo applicavano su ogni nota dove potevano. Il ricavato serviva a coprire una parte della somma occorrente per la festa patronale, non essendo bastevoli le offerte dei cittadini. I quali chiedevano ogni anno una bella festa, con buone bande, ricche luminarie e fuochi d’artificio alla grande, ma erano stretti di maniche nelle offerte. Certo, alcuni per tirchieria, ma i più perché di soldi ne avevano proprio pochi. Quel bollino non era consentito dalla legge, ma in regime di poteri forti, qual era in Italia il governo del partito unico, veniva tollerato, se la dirigenza del partito tollerava.

 Dopo la seconda guerra mondiale, ripristinata la festa di S. Maria, il comitato organizzatore dei festeggiamenti, ripristinò il bollino. Ma i tempi erano cambiati. Qualcuno protestò, e l’autorità intervenne. Ordinò di ritirare i bollini dalla circolazione e di non più diffonderli. E fu per sempre.

Il sabato fascista

Con l’arrivo della primavera aumentano le adunate pomeridiane destinate all’istruzione premilitare dei giovani e a qualcosa di simile per i ragazzi. E’ il “sabato fascista”, un’ imitazione ad uso paramilitare del “sabato inglese” dedicato, invece, al riposo e allo svago. Veramente i ragazzi di qui preferirebbero uscire in strada, nelle piazzette vicino casa a giocare: con lo strummolo(la rudimentale trottola di legno a forma di pera, con la punta di ferro acuminata, che viene lanciata sul selciato a girare vorticosamente), o a fare le corse con il cerchio, o le discese spericolate con la carretta, una tavoletta di 70/80 centimetri per 40/50 poggiata su quattro rotelline. Ma, loro malgrado, sono inquadrati in squadre e poi, come i più grandi, in manipoli e centurie, secondo la nomenclatura in uso negli eserciti dell’antica Roma. Imparano a eseguire ordini di tipo militare, a fare avanti-marsc,a marciare al passo ritmato su\Vunò-duè,a compiere le evoluzioni fiancodest-dest, frotasinis-sinìs.e via di seguito. I moschettieri, in più, cominciano a maneg­giare il moschetto di formato ridotto, fatto apposta per loro. Così tra uno spallarme un bilanc’arme un po’ di spiegazioni sul come funziona, un poco alla volta prendono confidenza con le armi. Una confidenza, tuttavia, che non accende i petti di spirito guerriero, che è solo di facciata, priva di interesse, chiaramente e diffusamente percepibile.

Devo dire di aver provato, negli anni della mia adolescenza, una certa insofferenza per queste adunate del sabato, talora con lo straordinario alla domenica, meno accetto ancora. Ma la inespressa rimostranza era rivolta alla loro forma costrittiva, alla forzata rinuncia ad alcune ore libere del pomeriggio. Non andava neppure a sfiorare la forma politica al governo del Paese. Poi, iniziata l’adunata, presto il senso di disagio si dilegua, coi compagni si sta bene, si trova anche il tempo per ridere e scherzare, dato che le esercitazioni non sono faticose; in pratica si risolvono in brevi marce, qualche corsetta, un po’ d’istruzione teorica sul moschetto, conversazioni di cultura militare e fascista.

Durante gli intervalli tra un’esercitazione e l’altra i giovani fascisti e gli avanguardisti rinserrano le file e intonano cori. Gli inni di sempre sono a noia, e vengono cantati solo a comando, a cominciare da quello ufficiale “Giovinezza, giovinezza”. Il motivo che tiene banco è sempre Faccetta nera; cui si aggiunge da qualche mese un altro, più romantico, “Le carovane del Tigrai”. Ma altre due canzoni sono quasi di rigore tra i giovani, discretamente invereconde. Una narra i casi piccanti della giovane Rosina che, andata un giorno al mulino, si fa sedurre dal “mulinaio dagli occhi bianchi e neri”; l’altra, con un frasario più allusivo, intrigante, racconta le schermaglie tra la licenziosa signora e lo scaltrito spazzacamino, con idillio finale.

Lo sport: quale, chi lo pratica, chi l’organizza

Vieste è una città priva di strutture sportive, come quasi tutte le cittadine di provincia. Qui non c’è modo per i ragazzi di esercitarsi nell’atletica né di fare palestra. Non c’è luogo neanche per il calcio, che pure è uno sport già molto diffuso, salvo quel poco che si fa d’estate, per lo più dagli studenti, sulle spiagge, dove la sabbia è abbastanza umida da poterci correre sopra col pallone.

La sola “arena” disponibile è il mare. Per i ragazzi che vogliono impa­rare a vogare, la GIL ha messo a disposizione una barca con l’istruttore, e non mancano i volenterosi.

L’unico vero sport che qui si può praticare, anche se a un livello agonistico approssimato, è il nuoto.

Vi si cimentano i ragazzi e i giovani che frequentano le spiagge del Ca­stello, di S. Lorenzo e, proprio nel­l’abitato, quella chiamata Sciale della pescheria, che negli anni di poi di­venterà Marina Piccola; e ci sono le rive rocciose, ma pure praticabili e praticate dai bagnanti: S. Francesco (avanti e dietro il convento) e Sotto la Ripa. Nel tratto di mare da San Francesco allo scoglio del faro non è infrequente vedere ragazzi che vanno a nuoto verso F isolotto o ne tornano.

Per i frequentatori del mare ci sono ogni anno, in estate, i campionati di nuoto, che cominciano con le eliminatorie comunali (che da noi si svolgono nel mare aperto), cui seguono quelle provinciali a Manfredonia (sempre nel mare aperto) e si concludono a livello nazionale a Roma, qualche anno a Bologna, dove affluiscono da tutta l’Italia i vincitori pro­vinciali dei quattro stili.

Dell’organizzazione a Vieste s’incarica la persona che segue con atten­zione il settore giovanile, come trattarsi di una continuazione dell’attività scolastica, il maestro Sante Iannoli.

Tra i partecipanti alle gare della provincia di Foggia fanno spesso buona figura i ragazzi di Vieste, che riescono vincitori a Manfredonia e vanno alle gare finali. Alle finali non conseguiranno piazzamenti menziona­tali, nè potevano aspirarvi, tenuto conto che hanno imparato a nuotare senza istruttore, nel mare, e che a Roma e a Bologna le gare si disputano in piscina. Resta loro, comunque, la soddisfazione di aver primeggiato in provincia e di essere arrivati alla manifestazione finale e relativa festa collettiva. Avrei voluto ricordarli tutti questi nuotatori viestani, ma non sono riuscito a trovare altri nomi, oltre ai quattro che conosco, qualcuno dei quali mi è stato amico carissimo.

I nomi di questi: Clemente Pasquale marinaio. Pellegrino Emanuele che anni dopo emigrerà negli Stati Uniti; Rado Nicola, poi impiegatosi nel Banco di Napoli, che è uno degli adolescenti impegnati negli anni che stiamo ricordando è, al presente, la memoria storica; Piracci Ignazio che farà l’in­segnante e ricorderà la trasferta natatoria di Bologna non tanto per le gare a cui partecipò con Clemente, quanto per l’appendice alle gare: rincontro e la conoscenza con ragazzi di altre regioni. In particolare – mi raccontò – un piccolo episodio che si verificò vicino a lui nel festoso pranzo alla chiu­sura della manifestazione.

Verso la fine del pranzo, essendo rimaste parecchie michette di pane sulla tavola, un ragazzo della nostra provincia ne prese una e se la mise nel tascapane, poi ne prese qualche altra e fece lo stesso. Un compagno che gli era vicino, dall’accento settentrionale, gli fa: “Scusa, ma che te ne fai di quel pane?”. E il nostro, un po’ esitante: “Me lo stipo!”. (Me lo conservo). Perché se lo conservava non lo disse. Forse per il piacere del panino soffice allora scoperto, diverso dal pane fatto in casa dalle mam­me, destinato a durare sette/otto giorni, che si faceva ogni giorno più duro; forse per inveterata previdenza: forse…-

Come già accennato, il dirigente che a tutto sovrintende è il maestro Sante Iannoli. E’ lui che organizza e guida le attività sportive e ogni altra manifestazione dei giovani, dai balilla agli avanguardisti. Durante la seconda guerra mondiale ricoprirà l’incarico di segretario politico del fascio locale, incarico che svolgerà con discrezione, equilibrio e umanità. Basti pensare che i pochi antifascisti locali – antifascisti peraltro solo d’opinione – pur essendo noti come tali, non avranno a lamentare fastidi.

Altrettanto dicasi delle non poche persone che ascoltano di nascosto la proibita “Radio Londra”. Anzi, è lui che ne riceve da qualcuno più fascista del duce, che ogni tanto gli va a riferire il nome di qualche incauto ascoltatore di radio Londra chiedendogli di segnalarlo “a chi di dovere”. Cosa che si guardò bene di fare. Come non lo fece nei riguardi dei cittadini che, via via che gli eventi della guerra volgevano a nostro sfavore, diventavano sempre più apertamente critici del fascismo. Il maestro Iannoli andrà ricordato ancora per aver saputo dare una mano, sempre quando ha potuto, a chi si è rivolto a lui, ma soprattutto come insegnante fortemente legato al mondo della scuola. La scuola di cui è stato per molti anni il valente fiduciario e poi primo segretario della istituita direzione didattica, stimato dalla gente, dai superiori e dai colleghi.

ludovico ragno 2006

11 – CONTINUA