Ai limiti del Tavoliere di Puglia, in vista del mare, un ristretto pantano ancora ammorba l’aria di miasmi palustri. E’ l’inglorioso avanzo di un seno marino che i detriti hanno chiuso, rendendone pestifere le acque e malsana la vita agli abitanti di Salapia, i cui resti sono ormai sepolti. Ma è tradizione che Salapia era città ricca e centro importante della vecchia Daunia.
In essa esisteva un famoso tempio dedicato a Cassandra, profetessa specializzata nel mandare a monte le nozze non desiderate dalle ragazze. Le quali, per non unirsi con l’uomo che era stato loro destinato o che comunque non volevano per marito, dovevano recarsi a Salapia indossando, come le Erinni, vesti nere tenute sù da una cintura rosseggiante di sangue ed il viso cosparso con succo di erbe magiche; giunte nel tempio bastava che stringessero con le braccia la statua della profetessa, per essere senz’altro fuori pericolo. Il deprecato matrimonio non sarebbe mai più avvenuto.
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Le pendici meridionali di Monte Gargano prolungavano forse le loro ombre sino a Salapia, tanto questa città era vicino al massiccio ciclopico, ai cui piedi s’infrangeva il piano. E da quelle pendici boscose, i pochi abitanti miravano la città, alla quale certo giungeva il murmure delle chiome arboree che alla brezza diventavano pettegole ed al vento irose. Sul dorso del monte, in una povera capanna, viveva Elena, bella figlia della montagna, che un pastore brutto e prepotente s’era messo in mente di fare sua moglie. E non le dava tregua. Ogni giorno si recava da lei e, se per poco la ragazza mostrava di non gradire la sua presenza, erano occhiate torve e minacce. Elena non sapeva come fare. Non aveva nessuno che la difendesse e con mille arti cercava di ritardare le indesiderate nozze. Di tanto in tanto un vecchio e sapiente amico del padre andava a trovarla. A lui la ragazza confidò le sue pene e chiese consiglio. Sì, poteva dargliene uno ed efficacissimo. Doveva recarsi a Salapia. In quella città della pianura, tutta bianca sull’azzurro marino, vi era un tempio dedicato a Cassandra; in esso si adorava una grande e bella statua della infallibile profetessa. Bisognava andare al tempio con vesti nere ed una cintura rosso-sangue, il viso spalmato di succo di erbe magiche, e stringere forte con le braccia la statua della dea. Poi il brutto pastore innamorato non sarebbe più apparso e l’aborrito matrimonio non sarebbe avvenuto. Glielo assicurava lui, vecchio e fedele amico di suo padre che le voleva bene come ad una figlia e che non sbagliava mai. Fu leggero il cammino ad Elena, giù per il dorso del monte e lungo le vie terrose della piana. E la città era bella, con tanta gente che affollava le strade. Nell’aria, un odore acre di mare.
Anche il tempio di Cassandra era bello e grande, dominato tutto da una statua alta della dea, in una penombra misteriosa. Sulla veste nera di Elena, fiammeggiava la cintura scarlatta ed il viso aveva contrazioni strane che il succo appiccicoso delle erbe dava alla carne. Forte fu l’abbraccio alla statua, tanto forte quanto grande era il desiderio della ragazza di evitare le nozze e quanto profonda era la ripugnanza che sentiva per il brutto e villoso pastore. Il rito era compiuto. Finalmente era salva. E con certezza non sarebbe stata più importunata da quel ceffo infernale; glielo aveva assicurato il sapiente amico di suo padre. E chi sa che invece non si facesse vivo quell’altro pastore da lei adocchiato, vigoroso e perfetto come Apollo. Anche questa sostituzione aveva chiesto Elena alla profetessa, durante il prolungato abbraccio alla statua. E fantasticava lungo il cammino di ritorno, con una grande speranza nel cuore.
La notte la colse sull’erta del monte, non molto lontano dalla sua capanna. Giunse e vi entrò che era già buio pesto. Che sollievo quando richiuse la porta e respirò l’aria e gli odori di casa!
Ma si era appena accostata al suo giaciglio, quando da queste due braccia poderose si sollevarono, la ghermirono per la vita, strapparono violenti la cintura scarlatta e la veste nera, la piegarono, raccostarono ad un corpo villoso mentre una bocca calda ed affannosa chiudeva le sue labbra e la voce emozionata e balbettante del bruto pastore l’invocava prepotente ed appassionata.
— Dea bugiarda… e… maledetta!…, sentirono biascicare le pareti ed il buio della capanna.
Poi, nella notte, mormorò a lungo la foresta.
Giuseppe D’Addetta
Scrittori Dauni – 1960 –
(3 continua)