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Riceviamo e pubblichiamo/ E’ proprio vero che l’economia deve avere come sua “mission” il profitto?

ECONOMIA  CIVILE
La globalizzazione ha determinato una uniformità del tipo di economia in tutte le nazioni fondata sul “profitto”.
   Avere lo stesso tipo di economia in tutto il mondo ha portato all’esaltazione degli aspetti positivi del profitto ma anche di quelli negativi del sistema perché il tutto avviene senza ostacoli e senza controlli.  La crisi che stiamo ancora subendo  ne è un frutto tipico, addirittura si fonda su realtà virtuali cioè sul valore di beni che non esistono.
   Il consesso internazionale ha capito bene questa realtà e proclama che bisogna stabilire regole,limiti e controlli per evitare simili crisi per il futuro però a tutt’oggi non ha fatto nulla e le grandi banche, salvate dall’intervento dei governi ovvero dall’aiuto delle comunità nazionali, hanno ripreso ad agire come prima obbedendo al principio della massimizzazione dei profitti.
   Perché, nonostante i pronunciamenti, non è stato fatto nulla?
   Forse perché coloro i quali dovrebbero intervenire sono gli stessi che ci guadagnano dalla crisi?
   Ma chiediamoci: perché questa economia di mercato? Quali sono i presupposti culturali che hanno dato origine al tipo di economia così come la viviamo oggi?
   Il sistema economico odierno è figlio degli sviluppi culturali dell’Illuminismo della fine del Settecento. (Ved. “ L’impresa civile “ L. Bruni – Università Bocconi Editore)
   Mentre in Scozia Smith e Hume mettevano a fuoco i principi dell’economia del profitto, negli stessi anni, a Napoli, Genovesi, Filangieri ed altri sviluppavano l’Economia Civile.    
   Tra le due teorie economiche-filosofiche ci sono molte analogie ma al tempo stesso c’è una differenza sostanziale. 
   Smith, pur riconoscendo che l’uomo ha una naturale tensione alla socievolezza, dice esplicitamente che sentimenti e comportamenti di benevolenza complicano il meccanismo del funzionamento del mercato, che opera tanto meglio quanto più strumentali sono i rapporti al suo interno. Invece per la scuola Napoletana – Genovesi, Filangieri, Dragonetti e poi nel Novecento Luigi Sturzo, e in un certo senso, Luigi Einaudi, ma anche per economisti più applicati come Rabbeno o Luzzati o il fondatore dell’economia aziendale Gino Zappa, il mercato, l’impresa, l’economico sono in sé luoghi anche di amicizia, reciprocità, gratuità, fraternità.
   La tradizione Latina, Napoletana e “Civile” non fu certamente quella vincente in Europa, dove si affermò, per tutto l’Ottocento, l’economia politica di Smith fondata sull’individuo e sigli interessi e non sulla comunità e sulla reciprocità come voleva la tradizione Italiana dell’Economia Civile.
   L’Economia di mercato Italiana è anche la storia di un sentiero interrotto.
   L’umanesimo civile prima e il Settecento riformatore dopo avevano, in realtà, dischiuso una via al mercato innovativa e capace di grande futuro. Le vicende politiche, ( lo sviluppo dell’unità d’Italia e il risorgimento ), religiose e il fascismo hanno bloccato, o fortemente condizionato, un processo che poteva condurre l’Economia Italiana su sentieri civili ben diversi. L’infelicità e la solitudine crescenti delle nostre economie opulente ci dicono forse che l’Economia Civile, con i suoi valori di reciprocità, fraternità e pubblica felicità, non è l’Economia del passato ma quella che ci attende. Ma occorre che la fraternità, la reciprocità e la pubblica felicità diventino progetto civile e politico, nuovo patto sociale. Non si tratta di rinnegare l’economia di mercato ma di orientare gli obiettivi economici più verso il bene della comunità. Le incertezze e le sofferenze umane che questa crisi sta procurando e procurerà negli anni, ci dicono che un’impresa e un’economia civile sono necessarie alla sopravvivenza dell’economia di mercato.

   L’Economia e il Mercato devono condividere la stessa legge fondamentale: la ricerca del bene comune.

   Un ospedale, una scuola, un museo sono imprese civili perché il loro scopo non è fare i soldi ma curare malati, educare e formare, promuovere la cultura, pur operando nel mercato e sottostando a vincoli di efficienza. Anche un artigiano è un imprenditore civile se il suo scopo non è fare profitti, attraverso la vendita degli oggetti prodotti, ma realizzare oggetti sotto un vincolo di bilancio che gli consente di vivere una vita buona; come è imprenditore civile una cooperativa sociale, una impresa di Economia di Comunione, la Banca Etica o una banca cooperativa, un progetto di commercio equo.
   Cosa fare in concreto per riprendere il cammino verso un’economia civile?
   Si possono solo intuire e individuare strade da percorrere ma resta il fatto che devono essere gli esperti e gli studiosi ad indicare le cose pratiche da fare. Comunque è indispensabile che i politici si pongano l’obiettivo di portare l’Italia su questa strada altrimenti si ripetono gli stessi scenari del passato.
   Se la comunità fa propria la cultura della fraternità, gratuità e reciprocità è possibile far risorgere l’Economia Civile coinvolgendo il politico, l’economista, l’imprenditore, i sindacati e altri per questo chiedo a tutti di diffondere queste idee e di impegnarsi perché diventino idee guida dell’agire sociale.

   “L’Economia Civile non è un’utopia ma il sistema per puntare alla felicità sociale. Fin’ora hanno preso il sopravvento quelli dell’interesse personale, pochi, potenti e ricchi. Capovolgiamo questo scenario e puntiamo al sistema del bene comune”.

   Matteo Starace
  Matteo.starace@tele2.it