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Cenni di storia del Gargano/ L’Archeologia del paesaggio racconta com’eravamo

Un paesaggio a noi vicinissimo ma che non è più riconoscibile. La dinamica che ha innescato il degrado è stato l’abbandono, specialmente nella gran parte dei paesaggi agrari delle aree collinari e montane; gli altri, quelli delle fasce costiere o pianeggianti, sono stati cancellati dall’urbanizzazione Ci è facile associare l’archeologia a luoghi taciuti dal tempo come è altrettanto facile immaginare lo studio archeologico rivolto solo a mondi perduti, civiltà misteriose e ruderi nascosti, custodi di preziosi tesori, che solo un novello Indiana Jones può raggiungere. Eppure esiste anche «un’altra archeologia», quella più vicina alla realtà, che vive e interpreta il passato scomponendo il presente. Questa archeologia si nutre di luoghi a noi vicini, ma non per questo meno sorprendenti. Ricostruire paesaggi è la filosofia dell’Archeologia del Paesaggio, nuova disciplina che la si trova oggi in diversi corsi di laurea (facoltà di Lettere).
Attraverso la lettura e l’interpretazione del paesaggio attuale si può ricostruire la storia del territorio, sia sotto il profilo fisiografico sia, ovviamente, storico. Si ricorre a cartografia, fotografia aerea, toponomastica, archeologia, fonti scritte, testimonianze orali. La ricostruzione non è affatto facile se l’oggetto è il paesaggio: vegetazione, usi del suolo, strutture produttive, forme colori e, come si sa, il paesaggio non lascia fossili. L’archeologo classico scava, l’archeologo del paesaggio deve saper leggere e interpretare ciò che è possibile decifrare dai paesaggi odierni o attuali. Un fronte di ricerca di questa nuova disciplina sta operando nella ricostruzione dei paesaggi agrari, quelli che hanno caratterizzato l’Italia agricola, l’Italia di non più di un cinquantennio addietro, ma che hanno assunto oggi i caratteri di paesaggi agrari storici. Ricostruire questi paesaggi non è affatto facile e forse è più facile ricostruire un paesaggio di epoche lontanissime che questi paesaggi che tra l’altro riguardano il nostro passato prossimo. Un paesaggio dunque a noi vicinissimo ma che per ragioni note (esodo agricolo, rurale) non è più oggi riconoscibile. La dinamica che ha innescato il loro degrado è stato l’abbandono, almeno sulla base di quanto si è verificato nella gran parte dei paesaggi agrari italiani, quelli ad esempio delle aree collinari e montane (il 75% della superficie territoriale); gli altri, quelli delle fasce costiere o pianeggianti, sono stati cancellati dall’urbanizzazione.

 Speciali Indiana Jones

La difficoltà nel ricostruirli sta nel livello di degradazione degli elementi strutturali che questi paesaggi hanno raggiunto che in molti casi è totale. Un paesaggio agrario è strutturalmente un paesaggio vegetale: colture arboree, siepi, frangivento, campi di colture orticole, pascoli; nel momento in cui viene meno la pratica agricola questa componente del paesaggio si cancella in brevissimo tempo. Restano in alcuni casi gli alberi, niente invece di colture erbacee o soprattutto è irreversibilmente cancellato il disegno (campi, strade, ecc.) impresso sul territorio, importante per capire o ricostruire la funzionalità del sistema.
I più tenaci restano gli insediamenti (case, muretti a secco), spesso fatiscenti, o informi cumuli di pietre. Gli scenari con i quali si caratterizzano sono diversi: in alcuni casi la percezione è quella di un luogo abbandonato, non più vissuto, in altri diventa persino difficile immaginare che un tempo sono stati spazi sociali, di intense attività produttive ed economiche. Si colgono presenze di erbacce, rovi, che dominano, elementi di un nuovo paesaggio vegetale, spontaneo, (rinaturazione) che ha preso il posto di quello creato un tempo e mantenuto per secoli dall’uomo con i suoi alberi, i suoi campi di grano, orti. La vegetazione naturale invade, si espande come un plasma su ogni cosa seppellendo anche quei pochi elementi strutturali che hanno animato di uomini e animali il paesaggio. È su questa «coltre» di vegetazione spontanea che anche l’archeologo del paesaggio deve «scavare»: a volte si trovano resti di case rurali, o vecchi alberi da frutto all’interno di boschi, tale è stato lo sviluppo della vegetazione spontanea. Scenari di questo tipo si possono osservare nel Gargano, anzi segnano oggi i tratti salienti del suo paesaggio. È qui che un archeologo del paesaggio trova fertile terreno per le sue indagini.
Un’occasione straordinaria per ricostruire il paesaggio agropastorale, fisso, immutabile per secoli e cancellato in fretta dalla rinaturazione innescata dall’abbandono colturale che parte non più di cinquant’anni fa. Ricostruirlo non è pura ricerca scientifica, ma è necessario oggi per non perdere memoria (patrimonio di conoscenze, valori, ecc.) del nostro passato prossimo. Il teatro però è ancora percepibile: un’imponente, rigogliosa e diffusa vegetazione forestale, tra cumuli di pietre, invasi che raccolgono acqua piovana, stalle, grotte, ruderi, file di macere che delimitano sentieri, tratturi che si intramano in ogni luogo, segni di un abbandono frettoloso e ormai lontano, ma non troppo. È ancora vivente parte di quella generazione che ha scritto l’ultima sceneggiatura. Probabilmente queste storie non sono state abbastanza raccontate.

La trama di questa sceneggiatura ruota intorno alla terra, al suo diritto di essere coltivata ma quasi per volere di Dio, appartiene a Baroni e Chiesa. Una terra, risorsa fondamentale per un economia agricola, che è stata per lungo tempo un vero e proprio campo di battaglia. Su un fronte una moltitudine di disperati, dall’altro, i padroni, la polizia, e spesso anche l’esercito.
Un anziano oggi portato qui ne rimarrebbe traumatizzato, non ritroverebbe, il mosaico di colori dei suoi campi di grano, di mais, di orti, di alberi, i suoi sentieri, se non nella sua memoria: la vegetazione naturale gli ha cancellato tutto. È evidente la sua angoscia come chi si trova in uno scenario devastato da una catastrofe, un epidemia, una bomba atomica. Una civiltà scomparsa, di cui lui ultimo sopravvissuto. Quando vi passeggerete a raccogliere funghi o more vi troverete spesso di fronte a ruderi, trasformati a cumuli di pietre e poi ancora pietre in lunghe e geometriche file di muretti a secco (macere) che dominano la scena; in tanti luoghi la stessa rinaturazione non riuscirà mai a cancellare l’intricata rete di muretti a secco che si disegnano su ampie superfici pietrose interne di Carpino, Cagnano, Sannicandro, o ciò che è ancora più visibile a San Giovanni Rotondo, San Marco in Lamis o Rignano Garganico.

 Mezzane, parchi e difese

Perché tante macere? O cosa delimitano? Ovviamente limiti di proprietà ma soprattutto le diverse destinazioni d’uso della terra, una vera e propria regimazione che ci porta dritti al feudalesimo. Tutta la terra era, come è noto, del feudatario (Baroni, Principi) ma per capire il tipo di organizzazione nell’uso messo in atto, possiamo partire da alcuni toponimi che ricorrono in una qualsiasi carta topografica,o che ancora sono radicati nella memoria di anziani che sanno ancora identificare con termini come mezzane, parchi diversi luoghi. Il significato non è facile ricostruirlo, soprattutto oggi: mezzane si trovano specialmente nel Tavoliere ma lo stesso toponimo si ritrova anche nel Gargano, conservando sempre la stessa funzionalità per cui il ruolo della macera era quello di «chiudere» una parcella per destinarla al pascolo. Ma la mezzana del Gargano aveva anche una precisa localizzazione, nella toponomastica infatti si trovano solo nella fascia costiera, in pratica in luoghi con un clima meno rigido come quello del Gargano interno.

I toponimi di parchi invece si trovano nelle parti interne o alte, più fresche, del Gargano. Tra parchi e mezzane vi è dunque una differenza di ubicazione ma la destinazione è identica; nei primi si praticava il pascolo nei mesi estivi, almeno fino ai primi di luglio qui era possibile trovare per ragioni bioclimatiche pascoli ancora verdeggianti; nelle mezzane si praticava il pascolo nei mesi invernali. Nell’arco dell’anno in pratica, parchi e mezzane erano le tappe di una transumanza interna al Gargano, sul modello delle più tipiche transumanze che spostavano gli animali dalle zone fredde a quelle più miti durante i mesi invernali, per farvi poi ritorno durante l’estate. Parchi e mezzane erano superfici spesso rocciose, di qui la vocazione al pascolo principalmente, ma in tanti altri casi invece circoscrivevano (con muretti a secco) superfici macchiose e boschive e quindi con potenzialità di essere messi a coltura.

Vi è, infine, un altro toponimo ricorrente sempre nelle cartografie relative al Gargano ed è quello di difesa, istituzione a cui ricorrono Baroni o Principi o gli stessi Comuni per difendere appunto determinati usi (pascolo, caccia) impedendone a chiunque l’accesso (delimitate da siepi oltre che da muretti a secco), poiché con l’istituzione delle difese veniva meno lo stesso diritto di uso civico garantito solo nei Parchi e nelle Mezzane. Qui si potevano infatti raccogliere (usi civici) legna da ramaglie, prodotti spontanei, quali i funghi, pur se per un periodo limitato alla stagione estiva (da giugno a settembre); si poteva ottenere anche il diritto di poter seminare. Nel resto dell’anno si ripristina l’uso pastorale.
Il teatro di questo paesaggio che vogliamo ricostruire è un Gargano montuoso, modellato da valli, valloni e doline, aspro, arido, boscoso sostanzialmente, con schiarite di pietraie, rocce: la scenografia è rappresentata oggi da reperti pur se esigui come ruderi e macere; la sceneggiatura, è stata scritta con la fatica, il solo lavoro senza capitali. Il padrone dava la terra, ed era già tanto, concedeva l’uso delle erbe, la rappresentazione, l’unica possibile, un modello pastorale regimato con l’uso della macera. Così, le pietre, quelle ordinate nelle lunghe macere possono cominciare a raccontare delle massacranti fatiche di spietramento per creare confini, superfici coltivabili, possessi.
Almeno fino alla prima metà del Settecento il promontorio era fondamentalmente boscoso, le fasce costiere, da Lesina a Isola Varano e ben oltre (attuale Lido del Sole) erano soggette a impantanamenti continui, di qui malaria, cattivissima qualità dell’aria; paludi si formano anche da Calenella a Vieste, tra le numerose calette costiere, per cui la parte utilizzabile del Gargano rimaneva circoscritta all’acrocoro, ove regnava il bosco e piccole schiarite su luoghi rocciosi, di qui la facile e comoda affermazione, per i padroni, del modello pastorale. Qualche capra o pecora apriva possibilità di sostentamento a pochi nullatenenti nei limiti ovviamente imposti dagli allevamenti bovini dei Baroni che dominavano incontrastati sulle superfici boscate. Un altro possibile attore è così il pastore con dieci, venti capre che deve ricorrere al pascolo itinerante, giornaliero, per ricavarne formaggi e latte e capretti, dopo aver pagato con questi l’uso dell’erba al padrone.
Sulle mezzane si avviano le prime colonizzazioni fondiarie che puntano all’impianto dell’uliveto ma con percorsi, in alcuni comprensori, particolari o strategici; non si dissoda la terra ma si attua semplicemente un esbosco che risparmia gli olivastri i quali poi verranno innestati tutti a olivo da olio. Attraverso il semplice innesto si formeranno così estesi uliveti, quelli che è possibile ancora oggi osservare da Cagnano fin in prossimità delle pianure di Apricena.

L’allevamento non poteva essere sacrificato, la soluzione dell’innesto trasforma significative boscaglie mediterranee (olivastro, lentisco, fillirea) in uliveti pascolabili, utilizzabili dagli inizi della primavera agli inizi dell’autunno per garantire poi le operazioni di raccolta delle olive. Questi particolari uliveti costituiranno una distinta qualità nel Catasto fondiario e saranno distinti come «pascoli olivetati».
Il modello pastorale che assoggetta, pur se per periodi limitati, le mezzane o gli stessi parchi, trova nel bosco la risorsa foraggera fondamentale; il bosco garantiva infatti, pur in piena calura estiva, la disponibilità di erbe e arbusti del sottobosco. Tra gli allevamenti acquisisce forza quello bovino; i bovari, gli allevatori, sono le figure che dominano controllando gran parte della superficie pascolabile. In un territorio così organizzato l’unica libertà di uso diverso delle risorse naturali, si realizzava con gli usi civici, un diritto per la gleba («folle» di uomini e donne); un uso che perpetua anche nel Gargano scenari neolitici, di uomini che vivono principalmente con la raccolta di prodotti spontanei. La concessione di questi diritti evidentemente è strategica poiché garantirà privilegi ai feudatari e dall’altra un controllo e, pur se in parte, una pace sociale diffusa e duratura.
Mutamenti socio-economici
Questo disegno sul territorio si apre a prospettive di cambiamento solo con l’occupazione francese che pur nella loro breve presenza avviano o lasciano sperare radicali mutamenti socio-economici attraverso l’emanazione (1806) della nota Legge dell’eversione della feudalità. L’intento è di smantellare definitivamente il sistema feudale e aprire il promontorio alla trasformazione fondiaria, attesa da sempre, assegnando ai cittadini quote (quotizzazioni) di terra del feudatario.
Il percorso non sarà facile, è in primis ostacolato dai stessi Baroni; del resto è la prima volta che si profila la possibilità per tutti di un diritto alla terra, questione di giustizia sociale che pertanto è terreno di tensioni ma anche di opportunismi e prepotenze.
L’agonia del sistema feudale, infatti sarà lunghissima e probabilmente non morirà mai se l’epilogo risulterà una semplice sostituzione del ceto dei padroni. L’intento è nobilissimo: tutti i terreni del feudo sono trasferiti ai Comuni che devono poi essere i responsabili delle quotizzazioni; le terre diventano «universali», si possono estendere gli usi civici a superfici più ampie, ma l’attesa più grande è quella, finalmente, di poter accedere al diritto di coltivare la terra.
Il baronato non è disposto facilmente a cedere diritti di proprietà consolidati nei secoli; pur se si ridimensiona la figura del Barone, rimangono gli eredi, i casati, ancora proprietari di superfici considerevoli che continuano a pretendere terraggi (pagamenti per l’uso delle terre). È infinita in proposito la casistica giudiziaria delle tensioni tra Baroni, Principi, Duchesse da una parte e Comuni dall’altra che puntano a garantire alla collettività almeno gli usi civici.
I comuni si troveranno a gestire consistenti patrimoni terrieri nell’attesa delle non facili concessioni a coloni o a estendere il più possibile il diritto di uso alla collettività; saranno meglio conosciute come terre comunali e ancora oggi quasi tutti i comuni garganici ne possiedono superfici considerevoli, segno evidente che le quotizzazioni non furono mai ultimate. Del resto con questi patrimoni i comuni si sono garantiti nel tempo entrate importanti.
Le quotizzazioni non si rivelarono facili, non da trascurare le tensioni tra mondo pastorale che vuole lasciare le terre libere al pascolo e mondo contadino che ha interessi, sacrosanti, di potere dissodare, parchi, mezzane e metterli a coltura. I coloni poi hanno rappresentato una parte esigua degli interessi agricoli, dominante era una realtà diffusa di bovari (allevatori) e pastori itineranti. Ma il bisogno di terra da coltivare era altrettanto forte, per ragioni alimentari, per produrre grano soprattutto, e garantire così sostentamento ad una comunità che con il modello pastorale faticava a sopravvivere.
È vero però che se le quotizzazioni faticano ad attuarsi, è anche per negligenza ma soprattutto per volontà in molti casi degli stessi amministratori comunali che non l’hanno certamente favorito. Le terre comunali si espongono così a occupazioni, abusi, usurpazioni di ogni sorta.
Su di esse agiscono due fronti di interessi: da un lato quello degli stessi amministratori, di professionisti emergenti, spesso figli di casati (avvocati, notai, preti); dall’altra una comunità che non ha niente, tra la quale uno sparuto gruppo di coloni. Quest’ultimo fronte troverà spesso solo briciole. L’impegno di dissodare le terre feudali e coltivarle con diligenza, senza limiti precisi era motivo sufficiente per impossessarsene con la semplice delimitazione con muretti a secco o fichi d’india, o siepi della superficie occupata; il tutto insomma attraverso regole arbitrarie, o ad hoc, con delibere comunali, sottaciute, incomprese o rese tali per la stragrande maggioranza delle popolazioni garganiche.
In pratica si arriva alle concessioni attraverso percorsi di vera e propria occupazione anche fisica delle terre, nei quali sono protagonisti nuove figure quali professionisti, preti, amministratori, resti di casati.
La maggior parte della terra così cambia solo padrone, ai baroni si sostituirono i loro eredi (casati) e soprattutto nuovi borghesi agrari, che nel Gargano si distingueranno come «galantuomini». Prende corpo anche qui il modello dell’azienda agraria capitalistica, che si afferma nel Tavoliere; non è la masseria dei di Sangro, dei D’alfonso (San Severo, Torremaggiore, Apricena) o ancora dei Pavoncelli e Rochefoucauld (Cerignola) che gestiscono migliaia di ettari (8.000 ettari i primi e circa 4.000 i secondi) ma è comunque corposa (in media anche di 1.000 ettari) e in ogni comune del Gargano si affermano nuclei importanti. Il modello pastorale, integrato alla cerealicoltura, troverà nella masseria la forma dominante di organizzazione produttiva. È un’azienda, nel Gargano così come nel Tavoliere, che riesce ad assorbire la stragrande maggioranza (70/80%) della forza lavoro disponibile ma è in prevalenza (anche oltre il 70%) costituita da salariati giornalieri per cui la figura del bracciante vive in condizioni di massima precarietà. Nel Tavoliere in alcune fasi produttive (mietitura del grano) la forza lavoro disponibile è addirittura insufficiente, per cui scendono dal Gargano migliaia di lavoratori.
Delle grandi concessioni feudali ai comuni non restano che briciole e su di esse non potranno che concentrarsi gli appetiti sacrosanti della povera gente per impossessarsi di un fazzoletto di terra da coltivare. Si apre così un altro capitolo di occupazioni fisiche delle terre comunali, che parte dalla prima metà dell’Ottocento e prosegue fino agli anni 50 del Novecento, quando folle di uomini e donne avevano già lasciato il Gargano (emigrazioni). Negli archivi di ogni comune garganico vi sono cataste di verbali di arresto, multe, denunce, di guardie, comunali, rurali, a povera gente sorpresa ad occupare terre comunali.
Nelle campagne vige un clima poliziesco, guardie rurali a difendere la proprietà dei comuni e quella dei privati che viene interessata a furti di frutti, grano, animali. Ovvi e naturali soprusi di una comunità che non ha niente: è costretta a rubare ramaglie, a tagliare qualche albero per procurarsi un po’ di legna per riscaldarsi, pratica la caccia nelle Difese; ruba pascoli ai bovari. Gli resta da raccogliere solo frutti ed erbe spontanee, lumache, ricci di terra. Con i Galantuomini, tante superficie perdono millenari usi civici che in ogni caso rappresentavano importanti occasioni di sostentamento per la popolazione.
L’attesa di impossessarsi e poi riscattarne la proprietà delle terre comunali è soddisfatta solo da uno sparuto numero di coloni che nella seconda metà dell’Ottocento fa aumentare la superficie olivetata (Vieste, Vico, Ischitella, Macchia, Mattinata), impianta vigne, mandorleti e comincia anche a produrre reddito oltre che a ripagarsi le fatiche.
I galantuomini nel frattempo sono diventati proprietari della parte più cospicue delle terre feudali, dopo esserne stati per lungo tempo semplici possessori o abusivi occupatori. Erano stati loro a mandare spesso i loro garzoni, nullatenenti a loro asserviti a occupare terre, chiudendole, con reti muretti a secco, esponendoli anche alla morte (le guardie rurali sparano anche) o all’arresto, pronti poi a difenderli nei tribunali. Così i galantuomini si sono impossessati di gran parte delle terre feudali.
La piccola proprietà

Terreno di tensioni, tra pastori, coloni e nullatenenti sarà ciò che resta, come innanzidetto, delle proprietà comunali. Le quotizzazioni, del resto pur nell’ipotesi di una corretta applicazione non avrebbero dato i risultati attesi: le quote di due tomoli (circa mezzo ettaro) per ogni versura sottratta al feudo, sono del tutto insufficienti ad avviare una ripagata attività agricola, resa ancora più gravosa dall’assoluta mancanza di capitali, per cui una quota affatto trascurabile di piccola proprietà contadina si costruisce con le occupazioni fisiche delle terre comunali.
I ricordi sono ancora vivi negli anziani e sono ancora oggi riconoscibili le terre comunali, quando non abbandonate, come si è verificato nella maggior parte dei casi, trasformate a colpi di zappa e piccone in verdi uliveti. Saranno i pochi esempi di attività o intraprendenza della piccola proprietà contadina che cancellerà un po’ di quel paesaggio pastorale che storicamente si era intessuto sul suolo garganico. Il bosco comunale è esposto su ogni fronte all’esbosco con ritmi devastanti: si disbosca, si dissoda per intagliarsi fazzoletti di terra da seminare, la fame è sempre alle porte; si disbosca anche nei boschi dei galantuomini ma per trarre profitto dalla vendita di legname (combustibile, costruzioni). Il nemus garganico si frammenta e si riduce drasticamente, di qui i ripetuti appelli di Michelangelo Manicone contro il devastante disboscamento messo in atto (1799)
Con l’attivismo di coloni e piccoli contadini nascerà una straordinaria diversità di specie e colture agrarie, dal fico d’india al castagno; una proprietà che pian piano intensifica le sue attività investendo con la colonìa anche sulle terre dei galantuomini, che a loro volta troveranno motivazioni, pur se in pochi casi, a investire nei processi di trasformazione fondiaria.
Trova posto così nel Gargano un’azienda agraria media con salariati anche fissi (Vico, Ischitella, Carpino, Sannicandro) con superfici produttive considerevoli: a Vico quest’azienda (3%) su una superficie territoriale di circa 13mila ettari detiene circa 10mila ettari. Ma siamo ormai negli anni Cinquanta del 900, le porte dell’emigrazione sono sempre aperte. Le fabbriche di Torino, Milano, offrono un irresistibile richiamo a una classe di salariati, braccianti e garzoni: un salario, sicuro e duraturo in alternativa ad una condizione umana delle campagne che non era riuscita a vincere precarietà, fame e miseria.
La grande azienda perde forza lavoro, è in crisi nel quadro ovviamente di una crisi che investe il settore a livello nazionale; sopravvive e si rafforza invece la piccola proprietà contadina che produce ancora ricchezza dal suo lavoro familiare, acquista via via scampoli della grande azienda che così gradualmente si sfilaccia e perde di consistenza. In realtà il fenomeno si avvia già agli inizi del 900; molti, sono gli emigrati in America, sono coloni, legati ancora alla terra; lavorano 5/6 anni, vivono in baracche con un obiettivo chiaro, accumulare un po’ di dollari per tornare nel loro paese e comprarsi un po’ di terra. Con l’acquisto, la piccola proprietà (favorita anche da opportune leggi) si consolida, cresce ma deve far conto solo ed esclusivamente sulla forza lavoro della famiglia. Manda i figli a studiare prima a Monte S. Angelo (Liceo) e poi all’Università (Napoli, Bari), il bisogno di riscatto è forte e si punta pertanto sui figli che possono diventare avvocati, dottori… Ma inevitabilmente perderà la sua integrità di azienda familiare.
Il riscatto, invece, della moltitudine di garzoni, braccianti, salariati e nullatenenti, si realizza con l’emigrazione. Nel decennio 60/70 del 900 si spopolano le campagne, si spopolano gli stessi paesi. Quella terra da secoli attesa non interessa più, anzi la si rinnega facilmente come si rinnegheranno le proprie origini, per secoli mortificate, segnate con termini ineluttabili: «cafoni», «garzoni». Un retaggio culturale che si trasferisci ai figli, ai nipoti che legano tutto ciò che significa campagna, terra o agricoltura a miseria e fame. Un retaggio culturale che ha fatto perdere, ovviamente ogni consapevolezza del potenziale produttivo (serbatoi di tipicità) di queste agricolture e che probabilmente condizionerà per sempre ogni ipotesi di recupero e di valorizzazione.

Nello Biscotti
Dottore di ricerca in Geobotanica