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Gargano/ Boss liberi e omicidi. Ma per i giudici «non è mafia». La guerra fra le cosche imperversa fra estorsione, intimidazioni e regolamenti di conti, ma il tribunale accusa le associazioni antiracket di voler condizionare i processi.

L’ultimo (per ora) l’hanno ammazzato tre settimane fa, a fucilate; si chiamava Onofrio Notarangelo, aveva 46 anni. Dieci giorni prima era stato ucciso Vincenzo Vescera, 33 anni, a colpi di pistola, stesso cognome e stesso clan di Giampietro Vescera, 27 anni, assassinato a settembre, pure lui a revolverate. In mezzo ci sono stati il ferimento di un altro pregiudicato agli arresti domiciliari, e diversi incendi dolosi: una discarica, molte macchine e un aliscafo. «A Vieste colpiscono così, qui in città invece mettono le bombe», dice Piernicola Silvis, sessantaduenne questore di Foggia, spiegando la mafia del Gargano in cui s’è scatenata una vera e propria guerra. Con epicentro Vieste, 14.000 abitanti che nel 2016 ha raggiunto due milioni di turisti attirati dal mare, dal clima e altre attrazioni. Che portano tanti soldi e scatenano appetiti criminali. Silvis è anche un affermato scrittore di thriller; nell’ultimo, Formicae, ambientato in quest’angolo di Puglia, ha dedicato alcune pagine alla descrizione delle organizzazioni criminali della provincia; quella del Gargano, che vive di tangenti imposte alle strutture dove in estate si affollano «mucchi di gente in costume da bagno e macchina fotografica a tracolla»; i cerignolani che fanno rapine da film in tutta la penisola; la Società foggiana che traffica in droga e estorce il «pizzo» all’ottanta per cento dei commercianti in città. «E nessuno nel Paese ne sa niente, i giornali tacciono (non di certo quelli locali, ndr). Perché Foggia è padre Pio, è il Gargano. Deve essere questo, nient’altro», scrive il questore-romanziere. Come se ci fosse voglia di negare una realtà che, proprio a Vieste in queste settimane, uccide come niente fosse.

La guerra fra cosche

Tre anni fa un tribunale ha sconfessato la matrice mafiosa del racket in quella zona, sostenuta dalla Procura antimafia di Bari. Gli imputati appartenenti al clan Notarangelo (legato ai vecchi mafiosi della cosca Libergolis, certificata come tale dopo un accidentato percorso giudiziario) sono stati riconosciuti colpevoli e condannati e pene severe: il capo, Angelo Notarangelo, s’è preso 11 anni di galera. Ma senza l’aggravante del «metodo mafioso», il che gli ha consentito di uscire dal carcere a luglio 2014, in attesa della sentenza definitiva, per «affievolite esigenze cautelari». Il tempo di provare a riprendere in mano le redini del comando e sei mesi più tardi l’hanno ammazzato. I maggiori sospetti si concentrano sul suo ex braccio destro Marco Raduano, condannato nello stesso processo, forse irritato dalla scoperta che il boss aveva accumulato beni per milioni di euro (sequestrati dalla Procura, ma non confiscati dai giudici) tenuti nascosti ai complici.

Intimidazioni e attentati

La catena di violenza È stato l’inizio della guerra, che ha portato agli omicidi successivi. Nel frattempo Raduano era stato condannato anche per il possesso di un arsenale ma assolto in appello (sebbene su una delle armi ci fosse una sua impronta digitale). Ora è tornato libero, e deve guardarsi dalle vendette dei Notarangelo; i Vescera già sterminati erano suoi uomini. Una catena di morti ammazzati che sembra confermare la mafiosità del contesto negata dai giudici. Il procuratore di Bari Giuseppe Volpe, 66 ani, pubblico ministero di esperienza ed equilibrio, commenta: «Noto un certo ritardo culturale della magistratura giudicante, che appare non del tutto consapevole di ciò che accade sul territorio». Per esempio a Vieste, dove i commercianti prima subivano attentati — dai locali bruciati alla benzina gettata nelle piscine, passando per sparatorie e furti — e poi venivano avvicinati dagli emissari del boss, o dal boss stesso, con frasi inequivoche: «È normale che ti succedono queste cose se non paghi»; «Riferisci a tuo fratello che se non vuole più danni deve mettere noi come guardiani… se non paga entro quattro giorni faccio saltare tutto». Assistiti dalla Federazione antiracket guidata da Tano Grasso, un folto numero di taglieggiati s’è convinto a denunciare gli estorsori e costituirsi parte civile nel processo al clan Notarangelo; ogni mattina partivano in pullman da Vieste per arrivare a Foggia, 100 chilometri più a sud, e assistere alle udienze. Col risultato che i giudici hanno avvertito un tentativo di condizionare il processo; andato a vuoto, hanno precisato nella sentenza.

Il clima di omertà

Un colpo duro per gli inquirenti e l’Antiracket, che non volevano condizionare nessuno bensì smascherare una mafia familistica e senza pentiti come la ‘ndrangheta, feroce e senza cupola come la camorra. Pericolosa anche perché negata sul piano locale e ignorata a livello nazionale. «L’ostacolo per noi insormontabile è il clima di omertà diffuso in quella provincia — spiega il procuratore Volpe —; a Vieste hanno alzato la testa ma la sentenza ha generato sconforto. Noi però andiamo avanti, malgrado le difficoltà, anche materiali, in cui lavorano i magistrati che si dedicano a tempo pieno alla criminalità foggiana». Uno di loro è Giuseppe Gatti, pubblico ministero del processo al clan Notarangelo. Pure lui ha pubblicato un libro (La Legalità del Noi, scritto insieme al giornalista del Tg3 Gianni Bianco) in cui sottolinea l’importanza del gioco di squadra tra forze dell’ordine, magistrati e società civile, com’era accaduto a Vieste. Ma soprattutto ha scritto un lungo e articolato atto d’appello per provare a ribaltare il verdetto che ha negato la mafiosità del metodo utilizzato dai taglieggiatori del Gargano. I quali ora si ammazzano tra loro, proprio come nelle guerre di mafia. Senza che quasi nessuno se accorda, fuori dalle contrade di Vieste.

La marijuana dall’Albania

Ma l’emergenza è reale, perché l’ultima indagine antidroga ha svelato che le spiagge locali vengono utilizzate per il traffico di marijuana con l’Albania (due anni fa ne fu sequestrata una tonnellata), dietro il quale si registrano alleanze tra la Società foggiana e i clan del Gargano. Che hanno inviato un loro killer, probabilmente su richiesta della stessa Società, per ammazzare un ventenne in un bar di Foggia, in pieno giorno, con un fucile a canne mozze, a fine ottobre. Tutto coperto dal clima diffuso di reticenza che il questore Silvis ha denunciato alla commissione parlamentare antimafia prima che nell’ultimo romanzo: «Se un libro di finzione può servire a sensibilizzare i lettori di questa città, ben venga. Del resto io non scrivo per far ridere, ma perché la gente pensi». In estate il poliziotto andrà in pensione, ma continuerà a scrivere. Così come gli imprenditori di Vieste continuano la loro battaglia, nonostante si siano sentiti traditi dalla giustizia che ha rimesso i boss in circolazione. Spalleggiati da un sindaco che ha intenzione di negare le concessioni pubbliche a chi non denuncia le richieste di «pizzo». Per non alzare bandiera bianca

Giovanni Bianconi
corriere della sera