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Sullo spirito di comunità e i risentimenti travisati. Riceviamo e pubblichiamo.

Il breve articolo che segue non vuole annoiare i seguaci facebookiani, ma ampliare il suo raggio d’azione in una riflessione che esula dai post dispettosi. Il tono sarà quanto più lineare e diretto possibile, senza retorica e ironia, a discapito di una lettura prevenuta.

Conclusi i resoconti dell’anno passato e gli auspici per quello nuovo, bisogna tornare alla concretezza di ogni giorno, ma solo per abbandonarla: i singoli mattoni, senza un progetto, non fanno una casa. Nella nostra città è in atto una campagna denigratoria, col beneplacito dei più.

Ma no, non ai danni dell’amata amministrazione comunale! Ad essere attaccata è la libera espressione. Purtroppo, mi toccherà una riflessione molto personale, la cui sede più adatta non sarebbe certo il giornale della comunità, se proprio questo non fosse assoggettato alle simpatie di vari politicanti.

Prima, però, una precisazione: che esistano testate fortemente schierate per questa o quella fazione a livello nazionale è indubbio e sacrosanto, ma trasporre la tifoseria nell’unico mezzo di informazione che esiste in un paese come Vieste è vile e ingiustificato.

Gli auguri personalizzati del nostro Istituto Luce, dati agli imprenditori del risentimento, sono una caduta di stile indegna, sintomo di una cultura istituzionale carente e di una politica da mercato. Frignare per gli effetti di una piattaforma come facebook, dopo una perenne campagna elettorale fondata sui social, rasenta l’assurdo e l’ingratitudine. I facili slogan, che pur possono soddisfare la pancia di alcuni, sono degli insulti all’intelligenza di tutti.

Eppure, lo slogan viene utilizzato tanto per sponsorizzare i propri eventi, quanto per screditare qualsivoglia opposizione: così la questione degli esposti e degli usi civici diventa una “stupidata”, così #lechiacchiereseleportaviailvento, così ogni critica è una castroneria, così una fascia della popolazione diventa buona e gli altri diventano quelli che odiano Vieste. Ma quale status consente di giudicare l’amore che un cittadino nutre per il proprio paese? Quale metro misura un sentimento così particolare, facilmente soggetto a banalizzazioni, quali il campanilismo esasperato, l’amor cieco o, peggio, la mercatizzazione? Perché amate Vieste?

Del paese voi amate i soldi che vi porta o il profumo del mare? Amate le scalinate colorate o la luce bianchissima che taglia le strade? Amate la casa vista mare o la collina di ulivi? Voi non amate il luogo, ma il profitto. Bisognerebbe accettare che la bellezza di Vieste è qualcosa che va molto al di là degli addobbi e delle trovate turistiche, che Vieste è più bella senza i viestani, che la sua natura non ci appartiene, che qualsiasi aggiunta umana ha potuto solo deturpare un territorio aspro e sperduto.

Se una voce ventenne lamenta la costruzione di interi villaggi turistici sulle dune delle spiagge, non lo fa perché non ha ricevuto la propria fetta di torta, o perché tifa per qualche altra fazione; lo fa perché crede davvero nella bellezza, quella disinteressata. Se lamenta un’ingiustizia per gli usi civici, lo fa perché crede nella giustizia e non si spiega come sia possibile che ad un contadino vengano richieste tasse per un terreno artigianale anziché agricolo, mentre i soliti nomi detengono la ricchezza viestana.

Se lamenta l’arroganza di un’oligarchia nient’affatto aristocratica è perché crede nel diritto d’opposizione, crede che la politica sia un’attività comunitaria volta al raggiungimento di un bene che sia realmente comune. Se contrasta un’iniziativa come Vieste in Love è perché crede che l’amore non sia mediocre, che parlare di amore per un amplesso in vacanza sia quanto di più ingiurioso si possa fare anche solo nei confronti delle grandi voci che hanno provato a trattare l’argomento (meglio non scavare oltre). Se non sopporta la parola cultura usata come giustificazione è perché sa che la cultura non sono quattro tappi, un cuore, due posate romane o l’intrattenimento domenicale; sa che la cultura senza lo spirito si sgretola in eventi passeggeri e paroloni; perché sa che solo una talpa può dire che “a Vieste nessuno si dedica alla cultura”.

Se si lamenta della legalità è perché sa che non basta dipingere Falcone e Borsellino sulla scuola, se poi non si paga il lavoro di un artigiano o di un dipendente. Se ogni scusa è buona per punzecchiare il lavoro dell’amministrazione, non è perché ha qualcosa contro Tizio o Caio, ma perché reputa inaccettabile una minaccia di querela (per interpretazioni frettolose), messaggi privati denigratori e commenti censurati; perché reputa assurdo che i cittadini vengano fermati per strada con l’avvertimento “mi hanno detto che ci hai criticato” oppure “quella ragazza è volgare” e quant’altro; perché reputa sbagliato il controllo poliziesco dei like, delle amicizie, delle opinioni.

Se si lamenta, è perché le regole non le ha capite e non sa che le cose in cui crede sono tutte fantasticherie su un uomo non umano. Ma il diritto a lamentarsi è pur sempre un diritto, soprattutto quando si abbandona la concretezza del singolo episodio e si cerca un riferimento più alto, parlando di umiltà, giustizia e spirito. Una maggiore onestà intellettuale porterebbe ad accogliere le critiche senza ricorrere all’alibi delle proposte.

Una maggiore sensibilità estetica e culturale ridurrebbe drasticamente le critiche, ma la sensibilità, per quanto discriminante, non è un merito o un demerito: la stessa manifestazione può essere al tempo stesso un grande evento e una porcheria, dipende dalla qualità degli occhi e del cuore. La critica nasce dalla sensibilità, non da un intento denigratorio nei confronti di singole personalità della politica locale.

La critica non nasce dalla volontà di dire “io sono meglio di te”, ma è un’insoddisfazione che scaturisce naturalmente da una situazione che non si confà al proprio animo, che è semplicemente “diverso” per ogni persona. Il diritto alla lamentela nasce dal diritto alla diversità, soprattutto se questa diversità è ostacolata da un regime di massa animato da intenzioni e aspirazioni totalmente opposte.

Lo spirito di comunità non consiste nella concordia degli ordini soggiogati, ma nel rispetto delle individualità e, come tale, manca più facilmente alle maggioranze che alle minoranze. Costringere alla condivisione di un “pensiero” unico significa appesantire la nostra città di ulteriori zavorre che mai le faranno spiccare il volo, sempre che per volo non si intendano ulteriori guadagni economici, ma voli spirituali e culturali.

Lucia Ruggieri

 

Sicuramente la rivoluzione digitale ha trasformato, spesso in meglio, il nostro modo di vivere e di produrre. Ha ridotto drasticamente le distanze tra gli uomini e le donne delle diverse parti del mondo, ha introdotto tecnologie che rendono le nostre esistenze più semplici. Ha permesso a tanti piccoli produttori e a tanti innovatori di far conoscere globalmente i loro prodotti e le loro creazioni senza grandi spese.
Ma c’è anche l’altro lato della medaglia, quello che lei sottolinea.

(…) una riflessione – tiene a precisare – che esula dai post dispettosi…

Perché lei ne ha letti mai qualcuno di affettuoso?

Ma, la Sua riflessione, conferma, della valanga di “imprenditori del risentimento” che circolano su facebook, altrimenti non ci avrebbe scritto. L’evidenza (purtroppo) è che i social spingono sempre a un giudizio istantaneo, spesso infondato, fazioso e lontano dalla realtà. Hanno una parola, e spesse volte un insulto, praticamente su tutto. Fanno sentire onnipotenti e in grado di attaccare anche chi ne sa su un argomento molto più di noi.

Una bolla autoreferenziale molto negativa come la Sua stucchevole tiritera sul “giornale della comunità assoggettato alle simpatie di vari politicanti” figlia della gran confusione che si fa tra le notizie e le opinioni. Figlia, dei “miei desideri” che se non diventano “diritti” sono cacca…
Infine sul nostro martoriato Paese.

Le segnalo, una mia modesta analisi neLa grande implosione”.

Il libro lo troverà in edicola o alla cartolibreria Di Santi. Meglio se passa dalla nostra redazione, così glielo regalo.

E poi ne parliamo.

ninì delli Santi