La solitudine, l’ho conosciuta tra i4ei 12 anni. Unico tra otto fratelli e sorelle, andavo a scuola percorrendo un’antica strada romana. Un’ora di solitudine per andare a scuola, due ore di solitudine a mezzogiorno per consumare il pane e cioccolato nell’aula disertata dai miei compagni, un’ora la sera per tornare a casa. Questa solitudine fu benefica.
AIMÉ DUVAL
Nel volume autobiografico II bambino che giocava con la luna, padre Aimé Duval, noto cantautore spirituale francese, racconta così la sua infanzia e adolescenza, avvolta nell’alone della solitudine e commenta: «Ho avuto in tal modo il tempo di darmi certezze a mia misura. Queste certezze hanno avuto a loro volta il tempo di depositarsi lentamente durante la mia vita».
Esiste, dunque, una benedizione della solitudine: non per nulla l’esperienza mistica suppone il silenzio interiore e spesso esteriore (l’aggettivo «mistico» deriva dal greco myein, «tacere», così come la parola «mistero»). Il rumore assordante delle discoteche, il muoversi in branco, il chiacchiericcio vacuo e fatuo sono i segnali di una dispersione dell’intimità e della stessa identità.
«Bisogna essere soli per non essere mai soli» diceva paradossalmente un autore spirituale, consapevole che la sua solitudine era popolata da Dio e dal mondo che lo circondava. Tuttavia c’è una solitudine che può essere maledizione, come dice il biblico Qohèlet: «Guai a chi è solo! Se cade, non ha nessuno che lo rialzi» (4,10).
Si tratta dell’isolamento che è vuoto e abbandono. In esso sboccia la mala pianta della disperazione, dell’incomunicabilità, dell’autismo spirituale. Ed è, allora, vero quello che scriveva nell’opera Fuoco pallido il romanziere russo-americano Vladimir Nabokov (1899-1977): «La solitudine è il campo da gioco di Satana». Chi è senza legami e senza amore diventa schiavo dell’infelicità, dell’odio, della desolazione. A noi tocca, allora, l’impegno di aiutare costoro ad abbattere il muro del loro isolamento.
Gianfranco Ravasi