Zeus, volendo castigare l’uomo senza distruggerlo, lo tagliò in due. Da allora ciascun uomo è il simbolo di un uomo, la metà che cerca l’altra metà, ossia il simbolo corrispondente.
PLATONE
Nell’antica Grecia si era soliti tagliare in due un anello, una moneta, un bracciale o un oggetto prezioso e dame una metà a un amico o una persona cara: queste metà, conservate dai due soggetti, permettevano ai discendenti di riconoscersi come legati da una sorta di vincolo generazionale. È da questo uso che il grande filosofo greco Platone (427-347 a.C.), nella sua opera Simposio, parte per sviluppare una riflessione sull’uomo e sulla frattura profonda che è alla sua origine.
Egli è un essere incompleto, tagliato a metà, ed è per questo che avverte fortemente la necessità della ricerca dell’altra metà perduta. Nasce da qui l’urgenza della relazione col proprio simile, anzi, come si è soliti dire, dell’incontro con l’anima gemella.
Platone usa il termine «simbolo» per indicare questa situazione della creatura umana. Il vocabolo nella sua etimologia greca significa «mettere insieme» ciò che è separato e quindi suppone proprio la ricerca di quella metà mancante per ritrovare l’unità smarrita.
In tutta la nostra esistenza diamo valori «simbolici» alle cose, cioè le rimandiamo a un’altra dimensione più alta per scoprire alla fine l’armonia che è andata perduta. Naturalmente con tutte le distanze e diversità, potremmo dire che analogo è il discorso cristiano sul «peccato d’originale»: è una frattura che crea disarmonia tra uomo e Dio, tra uomo e il prossimo, tra uomo e mondo.
Siamo insoddisfatti perché profondamente feriti, con la libertà squassata, con l’illusione di «essere come Dio», ritrovandoci invece imperfetti e peccatori. Ecco, allora, la necessità di ricucire lo strappo con Dio, con gli altri e col creato, e la grazia divina ci sostiene in questa rinascita a creature nuove e unitarie.
Gianfranco Ravasi