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26 Aprile/ IL RITO E IL SIMBOLO

Gli iconoclasti e quelli che hanno in disprezzo le processioni, le immagini e le statue e tutto l’apparato esterno del culto sono assurdi rigoristi che igno­rano l’effetto prodotto nel popolo dalle cerimonie. Non hanno mai visto l’a­dorazione della croce il Venerdì santo, né l’entusiasmo della folla il giorno del Corpus Domini, un entusiasmo che coinvolge anche me… Vi è in tutto ciò un non so che di grande, di misterioso, di solenne.

DENIS DIDEROT

Così scriveva nel 1765 Denis Diderot, una delle figure emblemati­che dell’Illuminismo, direttore della celebre Encyclopédie e critico nei confronti della religione.

Mi viene in mente questa sua riflessione sul rito e sui simboli all’indomani delle tradizionali manifestazioni della festa della Liberazione, coi vari cortei, coi discorsi, con le musiche e gli omaggi floreali ai caduti. Ora, la liturgia cristiana che ha secoli alle spalle è indubbiamente più «grande, misteriosa e solenne», come dice Diderot, e ci permette una duplice (e antitetica) considerazione.

Da un lato, è facile e giusto schierarsi dalla parte di tutti coloro – e molti vescovi e sacerdoti lo fanno con coraggio – che vogliono purifi­care riti e costumi religiosi popolari da detriti pagani, da sprechi co­lossali, da un sacralismo fine a se stesso.

Sappiamo quanto severi fos­sero al riguardo i profeti: «Io detesto, respingo le vostre feste» dice il Signore. «Lontano da me il frastuono dei tuoi canti, il suona delle tue arpe non posso sentirlo! Piuttosto scorra come acqua il diritto e la giu­stizia come un torrente perenne» (Amos 5,21-24). D’altro lato, però, il rito e il simbolo sono segni viventi di una cultura, parole immediate di una spiritualità sincera, espressione di identità e manifestazione dell’incarnazione del cristianesimo nella vita e nella storia.

E, quindi è giusto conservare tradizioni, usi, costumi, rituali che riflettono l’ani­ma di un popolo, le sue idealità e le sue istanze vitali.

Gianfranco Ravasi