Sulle alture del Monte Gargano, tra nebbie sottili e foglie che scricchiolano al primo vento gelido, si celebra una festa che intreccia devozione, attesa e leggenda: quella di Ognissanti e del giorno successivo, dei Morti.
Raccontata da Giovanni Tancredi nel suo volume “Folclore garganico” (1938), l’atmosfera assume tinte quasi sacre e misteriose: il sole pallido, il volo lento di uno stormo di cornacchie, le case illuminate dal tepore di un focolare.

Il primo novembre, giorno di Ognissanti, le donne «montanare» preparavano un’offerta dedicata alle anime dei defunti: lessavano del grano o del granturco nel latte, e li condivano con vincotto di fichi e chicchi di melagrana.

Ma la festa non era solo penitenza o memoria: era anche attesa e dono. Al calar della notte, nella casa si appendeva una calza alla cappa del camino o dietro la porta: i bambini credevano che, dopo aver vagato tra mondo e oltretomba, le anime dei morti sarebbero giunte a mezzanotte per lasciare regali.
E così la calza, al mattino, era piena di fichi secchi, castagne, noci, mele, mele cotogne, dolci e qualche giocattolo.

Un’esperienza che univa in un unico gesto la paura e il gioco: la paura delle anime, che incutevano un poco di inquietudine prima di addormentarsi, e il gioco dei doni che eccitava i bambini.
La festa coinvolgeva anche i ragazzi più grandi. La notte tra 1 e 2 novembre, in piccoli gruppi, giravano per le case recitando la formula rituale: «Damme l’anima d’ li murte».
Il 2 novembre, giorno dei Morti, i più poveri uscivano a chiedere l’elemosina e in alcune case signorili veniva distribuito il “pane dei morti”. In un gesto simbolico e concreto, la comunità si faceva carico della memoria e del bisogno.
Col crescere dei bambini, la magia della calza si attenuava: si accorgevano che non erano le anime a portare i doni, ma i genitori o i nonni. Eppure, la finzione veniva preservata, gelosamente.
Non mancava una dimensione più severa, quasi ammonitrice. A Monte Sant’Angelo, nella chiesa della SS. Trinità – accanto al convento delle Clarisse –, veniva esposto uno scheletro umano davanti all’entrata: un monito visivo capace di far tremare i bambini. La festa, in questo senso, non era solo dolcezza e memoria, ma anche richiamo alla precarietà della vita e al destino ultimo.

A Peschici, tra il 1 e il 7 novembre, come ricorda Angela Campanile, (ricercatrice del Centro Studi Martella) in “Peschici nei ricordi” (Grenzi) la comunità partecipava alla “Settena dei Morti”, una preghiera cantata per sostenere le anime del Purgatorio. Le invocazioni erano potenti e piene di suggestione: «Siam alme purganti / straziate sì forte / ch’è peggio di morte / il nostro penar».
Il Purgatorio veniva descritto come «carcere», «oscurità», «mare di fuoco». Ma anche come destino temporaneo, dal quale le anime speravano il soccorso dei vivi: «Che pena crudele / l’oblio soffrir / Che strazio sentire / del cielo l’amor!».
Dal canto loro, i vivi offrivano preghiere affinché «loro» potessero “rinfrescarsi“.
La festa di Ognissanti e quella dei Morti, così come si vivevano nei paesi del Gargano fino agli anni scorsi, incarnavano quindi un intreccio di memoria, attesa e comunità: i bambini attendevano i doni, le famiglie condividevano cibo e gesto, la comunità pregava per le anime. E tutto ciò in un paesaggio spettrale: foglie che cadevano, nebbie che avvolgevano, uno stormo di cornacchie che si addensava nel cielo. In questa cornice, il confine tra vivi e morti si assottigliava, e la festa diveniva ponte fra i due mondi.
teresa maria rauzino



