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Peschici: i migliori anni

Monte Pucci: Rodi a ponente, a levante la torre di avvistamento, il verde guizzante dei pinastri, in basso, sullo sperone, il trabucco (un marchingegno? una macchina da pesci? un’“essenziale composizione astratta”, come lo definiva Romano Conversano?) e, seguendo la statale, in lenta progressione la “città bianca” del Gargano… Quale approdo più familiare per un visitatore transadriatico che il paesaggio e l’edilizia spontanea di Peschici? Ostuni e Polignano  sono gli unici centri pugliesi in grado di emularla con il biancore degli “ossi di seppia”. Ma Peschici, geograficamente più pronunziata a levante, cui sembra tendere con segreta nostalgia, ricorda l’Oriente nella struttura fisica, nel toponimo, nella provenienza del Santo Patrono (Elia), nel volto bizantino di alcune ragazze con gli occhi colmi di grazia misteriosa, fissi all’orizzonte quasi a perseguire un invisibile “altrove”. Come se nel codice genetico di questa popolazione siano, qua e là, percepibili tracce di una madreterra e perfino di una madrelingua che vanno identificate nelle regioni illiriche e anche più lontano, nelle valli e negli altipiani dell’Asia Minore.
Silenzio tra gli ulivi, felicità pastorale, leggiadri solo nelle ombre i panni al sole, fughe di scale, la strada a serpente verso il borgo antico con le linde abitazioni, ricordi moreschi nelle case a dado, vicoli scoscesi come “bocche di lupo” che, d’improvviso, lasciano scoprire il mare, frastagliature, macchie di vegetazione soprastante, calette, spiagge di oro fino, tetti e reti a onda come il mare, muli che ammusano al sole, il Castello  con la sua “pedana di Icaro”, la torre di via  Le Ripe, il Recinto Baronale, con l’iscrizione sul portale datata 1735.
I documenti più attendibili, del resto, fanno risalire le origini di Peschici alla vigilia dell’anno Mille, per opera degli Schiavoni, gente slava (il termine “slava” sta genericamente per etnia non occidentale) assoldata dall’Imperatore Ottone di Sassonia, con il preciso compito di liberare il Promontorio dai Saraceni.
Nucleo iniziale, perciò, di immigrati e, via via, punto strategico ambitissimo da principi e baroni che si susseguono nel segno degli Svevi, degli Aragonesi e degli Angioini. Mentre la vita della comunità acquista significato economico, civile e religioso a ridosso dell’Abbazia di Kalena, di cui si stenta a supporre l’originario splendore. Senza trascurare i traffici marittimi che dovettero assumere notevole rilevanza, se lo scalo viene riportato nei portolani del XV e XVI secolo, e senza tralasciare un “orgoglio” che si inscrive nello sviluppo nautico nazionale:  Giuseppe Libetta, comandante della prima nave a vapore italiana, nell’anno di grazia 1818.
E, poi, Procinisco, S.Nicola, Calalunga, Sfinale, Manaccora, il cui grottone è legato a interessanti reperti dell’età del bronzo.

Manacore (o Manaccora o Manaccore: bisogna essere indulgenti con la bizzarria onomastica) sarebbe rimasta probabilmente una voce di aspro suono nella nomenclatura degli archeologi, se nel mezzo degli anni cinquanta non avesse acquistato repentina popolarità grazie a un romanzo –  “La loi”, “La legge” – di Roger Vailland e nell’omonima trascrizione cinematografica di Jules Dassin. Così che, sia pure per cause esterne, per ridondanza immaginativa, un angolo sconosciuto agli stessi aborigeni entra nei grandi circuiti turistici, con forte incentivazione per l’intero circondario.
E Peschici, che fino al dopoguerra sembrava miticamente isolata nel comprensorio, nonostante un goffo tentativo di coinvolgimento ferroviario, d’un tratto si mette alla testa del litorale garganico, si espande, si guarda intorno, esplode… Ma senza perdere – occorre aggiungere – il suo incanto naturale, e senza lacerare le proprie tradizioni: quando si placa l’onda umana di luglio e agosto, una massaia intenta a infornare fichi e carrube, a salare olive, a dissalare sarde e alici, ad appendere un serto di pomodori per i mesi invernali, con voce gentile ci convince che i capperi dell’agro di Peschici si impongono come i migliori del Mediterraneo e che sono quelli medesimi che in tempi più lontani esaltavano le pietanze di luogotenenti orientali, pascià, monsignori e giacobini (“Narduccio” D’Aprile è l’indiscusso “promoter” nei paesi vicini, dove cerca, al contempo, di imbastire improbabili matrimoni).
Per Michele Protano, ginecologo valoroso, politico di solido impianto culturale, Assessore e Presidente dell’Amministrazione Provinciale, in quota ai socialisti, dominatore della scena politica peschiciana (e non solo) per circa mezzo secolo, le nove Muse contavano poco. Per lui contava soltanto la decima, la politica, che riassumeva ed esaltava.
A Peschici, e anche a Foggia, bizzarramente l’uomo politico, per essere ritenuto onesto, doveva essere povero. E Protano non lo era. Ma sfatò l’opinione che chi s’occupa di politica debba necessariamente “mangiare” e mostrò che si poteva degnamente governare un Comune o una Provincia, aumentando il proprio patrimonio, ma senza “mangiare” neanche una lira. A lungo, la “grande indignazione” dei democristiani locali considerò quella di Protano “politica da banditi” e si affannò ad accreditare la “vulgata” che il “medico” aveva inaugurato la stagione degli “affari”, proprio quando tutta la sua azione pratica, viceversa, era animata da un principio cui restò sempre fedele, quello che le Istituzioni dovessero aiutare i ceti più deboli nel loro sforzo per farsi “borghesia”.
La DC di Peschici, che gli si contrapponeva, si affidava per lo più a Romano Mauro, a Franco Fasanella, al vichese Vincenzo Afferrante, a Ugo Esposito (di letture raffinate e di sofisticata cultura, uno dei pochi “maitres à penser” locali e, tutto sommato, un “libero pensatore”) e ai giovanissimi Pasquale De Nittis e Fabrizio Losito: in tanti anni, però, lo scudocrociato non registrò affermazioni significative, attestato, com’era, su posizioni rancorose e di rigida conservazione, e soprattutto incapace di proporre un credibile modello di sviluppo alternativo.
Dei democristiani locali, Protano, con una punta di malizia mista a ironia, diceva: “Quando accompagnano un parlamentare in qualche cerimonia ufficiale o in occasione di una competizione elettorale, sgomitano, gesticolano, ridono… Sembrano una comitiva di comici a spasso…”. Un “flop” clamoroso fu, per sconfiggere Protano, la candidatura del “partigiano” Mario Di Lella (le cui fortune si favoleggiava provenissero dalla scoperta del “tesoro di Dongo”), sostenuto anche dalla destra. Era, Di Lella, ancora antifascista o era divenuto fascista? Domande inutili, oziose. In quella tornata elettorale, Di Lella fu sonoramente sconfitto, e se ne persero le tracce: i peschiciani avevano capito che per lui la politica era soltanto una gara per la conquista del potere, e che gli ideali e i principi erano mascherature.
L’unica volta che l’operazione riuscì fu con Michele Sarro, il “giudice sindaco”, un misto di vanità e di orsaggine, che è un modo di stare con gente “da meno” per sentirsi “da più”. Ambizioso, puntiglioso, spesso velleitario, capriccioso, Sarro divideva il mondo in due parti: quelli che dicevano bene di lui e quelli che ne dicevano male. Nel fondo, però, aveva della freschezza e dell’ingenuità. A oltre sessant’anni, talvolta, era il più ragazzo di tutti: si coglievano in lui –  nell’esperienza amministrativa – delle possibilità di “bohème”, di buttare la vita allo sbaraglio, di dilapidare un patrimonio di esperienze, di cultura, di valori. La sua vicenda amministrativa non fu di lunga durata. “Don Michele” amministrò con i codici sul tavolo, che, secondo le migliori tradizioni, applicò rigorosamente (per gli altri). E, comunque, pare impietoso che molti lo ricordino soprattutto per le ardite “ristrutturazioni” nella sua villa a Calalunga e per le omeriche liti da “pollaio condominiale” con il dirimpettaio Giorgio Toni, “barone” della Facoltà di Medicina bolognese.
La plateale, quasi tattile rappresentazione della consistenza dei contrapposti schieramenti, rigorosamente separati, si aveva la domenica, alla Messa delle 11, alla Cattedrale o a S. Antonio, dove convenivano tutti coloro che, nel paese, avevano una qualche posizione sociale, un nome o semplicemente un vestito nuovo da mostrare. Il sole, infatti, entrando dai finestroni, produceva un gioco di colori, in cui le vesti festive delle donne risaltavano e splendevano. La “funzione”, così, era insieme Messa e festa cittadina, Chiesa e salotto.
Per Protano, l’Amministrazione primeggiò, in ogni occasione, sulla politica astratta, il provvedere alle necessità concrete sui progetti vaporosi e vaghi. Egli assunse su di sé, nella cattiva sorte (e qualche volta capitò) tutte le responsabilità, seguendo la tattica opposta a quella dei generali sconfitti, che danno sempre la colpa ai soldati.

L’eterna legge della politica è quella della ricerca del meno peggio, e a questo assunto Protano cercò di adattare le sue decisioni. Il rapporto con i suoi “delfini” non sempre fu idilliaco. Di “Mimì” Mazzone, intelligente, narcisista, “poseur”, Protano si fidava poco, e di Matteo D’Ambrosio tutti erano convinti che facesse il Sindaco “ad nutum”, a un cenno, per una specie di contratto revocabile. Matteo, invece, godeva di ampi spazi di autonomia, e con il “tutor” aveva stabilito un rapporto di “concordia discorde” o meglio di “discordia concorde”. Solo Lorenzo Palazzo a Protano rimase sempre fedele, con una devozione inalterabile, e gli diede pochissime noie.
Il salotto della villa di Protano (allora in strenua, leale competizione con l’altro grande del socialismo garganico, il rodiano Teodoro Moretti), con vista imperdibile sul golfo, era crocevia del fior fiore del socialismo pugliese (e non solo): da Rino Formica, a Tommaso Pesce, da Peppino Di Vagno a Titino e Claudio Lenoci, da “Ciccio” Colucci a “Mimì” Romano e Franco Borgia, da Antonio Cariglia a Mario Tanassi, a Walter De Ninno (“Walterino”, dalle colonne della “Gazzetta di Foggia” che dirigeva e che era un grande emporio di malignità, di episodi, di fatterelli peschiciani atti, comunque, a far capire il clima di quegli anni, era abituale commensale a “casa Protano”, ma lo si incontrava spesso anche “Al Castello” di Mattea Vinelli o al “Paglianza” di Germano Fantino, di Monforte d’Alba, albergatore e ristoratore competente, cortese e discreto, che prima aveva avuto positive esperienze nel settore al “S. Nicola” e a “Valle Scinni”).
Una volta, Protano mi disse dinanzi a mezza aranciata che generosamente mi aveva offerto (l’altra metà era per lui): “Non si deve nutrire né amore né odio per gli uomini che governano. Per essi si devono avere i sentimenti che si hanno per il proprio autista: conduce bene o conduce male, ecco tutto”. E poi (erano gli anni del terrorismo): “Tra le bombe dei comunisti, ammesso che siano le loro, e la collaborazione dei neofascisti, preferisco le prime”. Naturalmente esagerava. Protano detestava le une e l’altra.
Via via, però, i socialisti di Capitanata erano diventati profondamente diversi. I “visi noti” (Romano, Protano, Moretti, Imbimbo, Bios De Majo)  si illudevano che fossero ancora i capi del socialismo dauno. E non sapevano, invece, che erano ormai dei tollerati, obbligati, più che mai, a forzare il tono della loro voce, se volevano un po’ di spazio (spuntavano, intanto, “capi” di un tipo del tutto nuovo, giovani “dottrinari” rampanti, con molto disprezzo per il buono, vecchio, festoso garofano all’occhiello, e molta paura di apparire sentimentali).
Il meglio del giornalismo italiano, invece, trovava ospitalità nella villa di Libero Montesi, già direttore del “Telegrafo”, la testata livornese appartenuta alla famiglia Ciano e, poi, Capo della redazione romana dell’ “Europeo”, che viveva nella pace di

Procinisco, sicuro, ormai, di essersi affrancato dall’ansia del giornalismo quotidiano, questo mostro che divora instancabilmente l’ieri per essere divorato dal domani.
Libero ironizzava sul “mestiere”: “Tre cose rovinano l’uomo; la carta, la penna, il calamaio… Io me ne sto liberando”. Molto cordiale, assumeva, nelle grandi occasioni, un po’ la posa di grand’uomo, di grande diagnostico della situazione politica nazionale. La moglie, Olga Fedrizzi, intratteneva le “pubbliche relazioni” con gli abitanti del luogo: donna travolgente, energica, ambiziosa, invadente, insistente nelle richieste, ma anche estroversa, affabile, vitale: non rinunziava mai a quello che voleva e non si rassegnava mai  se le si opponeva un diniego. La conversazione della signora Montesi non era mai “libera”, spontanea, e dava l’impressione di qualcosa di voluto, artificiale. Si sentiva in lei l’abitudine stereotipata alle cortesie. Spesso, per riprendere fiato dal ritmo frenetico che imponeva la direzione di “Panorama”, arrivava a Procinisco Lamberto Sechi in compagnia di Gaetano Tumiati e della moglie Emilia Granzotto, le “firme” più autorevoli del giornale. Sechi, emiliano, amico di Enzo Biagi, senza ambizioni letterarie o politiche, aveva introdotto nel primo “news magazine” italiano, lo “slogan” fortunato, e non sempre veritiero: “I fatti separati dalle opinioni” (la notizia in sé – si sa – non esiste, e il modo stesso di porgerla racchiude un commento): fatti precisi, mai generici. “Panorama” andava benissimo e teneva testa a tutte le pressioni: piccolo formato, impaginazione sobria, netta prevalenza dei testi scritti sulle immagini, stile di scrittura asciutto e impersonale, battagliero e spietato verso i detentori del potere politico. Sechi impartiva ai suoi redattori una regola tassativa: “Panorama non ha né amici né nemici, tratta tutti con equanimità”. “Da Peppino” ci s’imbatteva spesso in Pier Maria Paoletti, che su “Panorama” aveva inaugurato una colta, briosa rubrica gastronomica: un’autentica novità per molti anni.
C’era anche Camilla Cederna, donna di gran classe, che aveva esordito nel giornalismo con articoli di moda e di costume insolitamente graffianti. “Meno male che la gente ha la memoria corta” – scherzava – “I miei più grandi nemici sono coloro che conservano gli articoli”. Aveva introdotto nell’ “Espresso” una componente mondana con qualche frivolezza, che fece nascere la fama dei “radical chic”: “Il lato debole” era il titolo della sua estrosa rubrica sul settimanale romano. Dopo l’attentato di Piazza Fontana, abbracciò la causa dell’impegno politico e civile, dando alle stampe l’inchiesta, coraggiosa per quei tempi: “Pinelli: una finestra sulla strage”. Una volta la raggiunse a Peschici il fratello minore Antonio, che dalle colonne del “Mondo” e dell’Espresso, fustigava i “vandali in casa”, stupratori del nostro patrimonio storico, archeologico e ambientale.
E ancora Maurizio Chierici, allora “inviato speciale” del “Giorno” che, in un clima di generale conformismo, aveva rivoluzionato nella formula giornalistica e nella impostazione tecnica, la rigida e monotona grafica della stampa quotidiana.

E poi, Livio Zanetti, bolzanino come Montesi, che dirigeva “L’Espresso” formato “lenzuolo”, vicino alle posizioni della sinistra democratica: elegante, spregiudicato, impervio alle pressioni politiche, alle quali opponeva una scanzonata imperturbabilità. Il settimanale era un “mix” di politica, cultura, economia, attualità, costume, trattati con grande impegno professionale, venato, talvolta, da una punta di snobismo.
Mentre, alla Farmacia dello “speziale” Matteo Labombarda, con cui aveva condiviso gli studi liceali al lucerino “Ruggero Bonghi”, si fermava, tra un viaggio e l’altro in ogni parte del mondo, Matteo De Monte, di Cagnano Varano, il brillante e scrupoloso “inviato speciale” del “Messaggero”. Erano le giornate dell’“amorevolezza”: fiumi di aneddoti bonari, un mare di ricordi, qualche rimpianto…
Un percorso particolare seguiva, invece, Francesco Rosso, “prima firma” della “Stampa” di Torino, che ebbe con la cittadina garganica un  lungo, affettuoso rapporto. Di soda, ben digerita cultura umanistica, cui s’innestava una viva sensibilità per la natura, Rosso, mescolando “globale” e “locale”, fu l’aedo illustre e puntuale delle bellezze di Peschici, di cui evidenziò anche i ritardi e le contraddizioni in uno stupendo “reportage” dal titolo “Gargano magico”.
“Villeggiatura” è il soggiorno eccezionale, fatto dal “cittadino” al mare, in montagna o in campagna, per goderne le “delizie”. Il soggiorno di Rosso a Peschici, però, era il ritorno alla vita agreste di un uomo che gira il mondo e abita di solito in città, ma senza averne radici sentimentali, e che, appena può, si rifà provinciale e campagnolo, in compagnia degli amici “sicuri” Rocco, Matteo, Michelino…
“Misterioso” dal punto di vista delle donne, ma forse soltanto riservato, negli innumerevoli articoli dal Gargano, Rosso rappresentò scenette di vita di provincia, di “macchiette” e di tipi ben delineati con gustose descrizioni e riflessioni. E non era mai il classico “pezzo” del giornalista in vacanza che vuole facilitarsi la vita, e dice bene del paese che lo ospita, invocando, magari, un miglioramento della rete stradale, perché il pescivendolo gli conservi, con lo sconto, il pochissimo pesce fresco della zona.
Al “Castello”, in quegli anni, Romano Conversano si muoveva in un suo mondo personalissimo. Le sue tele, con le odalische formose e le stradine tra muri di case dalle volte a cupola piene di sole, sono di una potenza di evocazione visiva che fa sentire le cicale, la polvere, il caldo.

La salute lo aveva sempre retto mirabilmente ed era la prima condizione per avere l’umore dell’Ecclesiaste – “Ho preso da giovane l’abitudine di star bene” – diceva nei momenti di grazia – “E non vedo perché dovrei cambiarla ora che non lo sono più” (oggi, non resta nulla di quel cervello che vide la luce del sole e seppe renderla con tanta forza e tanto godimento).
Altro grande era Alfredo Bortoluzzi, nato in Germania da genitori italiani; pittore, ballerino dell’”Opéra” di Parigi, coreografo, scenografo, frequentò il Bauhaus a Dessau ed ebbe come maestri Kandinskiy, Albers, Schemmer e soprattutto  Klee, che influenzò la sua concezione della pittura come “gioco delle cose ultime”.
Nel 1957, scelse di vivere a Peschici, nel suo villino a Valle Clavia, trovando una fonte inesauribile di ispirazione e un approdo decisivo per l’elaborazione del suo linguaggio pittorico. Lì riceveva, lontano dal frastuono, l’affetto di pochi amici selezionati: “Io qui sto bene” – diceva – “Sto gran parte del giorno all’aria libera, dipingendo, guardando il mare e ascoltando i concerti degli usignoli”.
Manlio Guberti, romagnolo, invece, dalla Torre di Monte Pucci, il suo eremo/ laboratorio, ammirando le stelle e non guardando mai la televisione, dimostrava che i poeti e i pittori (quelli veri) esistevano ancora. Niente “pop” né colori urlati e neanche fini ideologici e propagandistici: l’obiettivo di Manlio rimaneva la bellezza, la natura, il ricordo e l’emozione.
Avevano casa nel centro antico Francesco Coppola, siciliano di nascita, emiliano d’adozione, architetto, grafico. “designer”, creatore di una “hot house”, una sorta di serra creativa, in cui incontrarsi e confrontarsi, e Mario Bellini, milanese, “archistar”, “designer” (tra i suoi clienti Olivetti, Cassina, Brionvega, Artemide, Fiat, Lancia, Renault …), allestitore di grandi mostre internazionali, più volte “Compasso d’oro”, direttore di “Domus”, la famosa rivista di architettura, “design” e arte.
Arrivava anche, con la sua rombante motocicletta, da Calenella, dopo aver disegnato le “pantere di campagna”, l’“impaziente” Andrea Pazienza, il fumettista che tradusse in disegni la genialità di Fellini e che sarebbe passato alla Storia per la creatività dei suoi manifesti.
Al contrario, alloggiava a Manacore al (naturalmente) “proletario” “Camping Internazionale”, gestito da Pasquale Quaglia, Mario Capanna il “lider maximo”, per dirla alla cubana, della contestazione studentesca, che aveva frequentato, però, in maniera più o meno clandestina, il salotto di Giulia Maria Crespi, la “zarina” proprietaria del “Corriere della Sera”, della quale si insinuava fosse stato l’amante.
Mario era conversatore di acutezza rara, anche se troppo incline verso spiegazioni tutte filosofiche e ideologiche degli avvenimenti, con “leggero” disprezzo del casuale, dell’aneddotico.

Quasi per contrappasso, a un tiro di schioppo, si riposava Alfredo Biondi, Ministro dei Beni Culturali, un avvocato toscano brillante, caustico, che esercitava la professione a Genova. Al Sindaco Sarro che non finiva mai di esprimergli la gratitudine dei peschiciani per la sua presenza, Biondi, con ironia un po’ forense, rispose sorridendo: “La gratitudine ha brevissima prescrizione…”.
Dal canto suo, Aldo Ravelli, il “mago” di Piazza Affari che, nel bene e nel male, rifletteva l’euforia e la depressione della Borsa di Milano, aveva fatto consistenti investimenti immobiliari a Manacore, e già l’architetto e urbanista udinese, Marcello D’Olivo, aveva dato vita all’”Hotel Gusmay”, opera ispirata a Wright, Aalto e Le Corbusier, tesa al superamento del razionalismo e caratterizzata da una complessa ricerca spaziale. In sintonia perfetta con le indicazioni dello strumento urbanistico redatto dall’architetto Renato Bazzoni, Vice-Presidente di “Italia Nostra”, la gloriosa (allora) Associazione ambientalista fondata da Umberto Zanotti Bianco.
Capitava frequentemente di sorprendere a un tavolo del “Barocco” la figlia Nina con il marito Achille Occhetto, prima che questi indirizzasse il Partito Comunista verso un’ideologia di tipo occidentale e prima, naturalmente, che il “clic” del fotografo immortalasse a Capalbio il bacio del “piè veloce” alla nuova compagna Aureliana Alberici.
Da maggio a settembre, nel suo “impero” di Manaccora, teneva banco, come un patriarca, Raffaele D’Amato, un “ self made man” di inattaccabile profilo, una fucina di idee, che fa pensare agli omerici limoni (“quando l’un spunta l’altro matura”), un affabulatore affascinante e incontenibile. Le vecchie storie, quando la sua memoria comincia a risalire il fiume del tempo, non si fermano più e si perdono in un mondo ormai lontano, di cui si stenta a ritrovare il filo. Di lui, Natale D’Agostino diceva: “È  un fiume in piena. Se non parla lui, si addormenta… E se l’interlocutore azzarda qualche frasicina, stende subito la mano e intima l’”alt” all’opinione altrui”.
A luglio, ogni anno, al “Villaggio D’Amato”, appunto, sempre nello stesso “bungalow”, prendeva i bagni, con la famiglia, Natale D’Agostino, amico di tutti, già Commissario Prefettizio del Comune garganico, santone sommo della Prefettura di Foggia, superesperto dei problemi della Protezione Civile, collaboratore principale del Ministro Giuseppe Zamberletti, nella ricostruzione del Friuli e della Campania,  dopo gli eventi calamitosi che avevano colpito quelle Regioni, profondo conoscitore del Diritto Urbanistico, sulle orme del suo compaesano Aldo Loiodice, Prefetto, poi, a Siracusa e a Salerno, e destinato alla grande carriera, prima che il male lo ghermisse prematuramente.

Di D’Amato, “Natalino” aveva stima e affetto sommi, cosa eccezionale in un paese in cui ognuno ha stima solo di se stesso.
La parola “comfort” acquista voga in quegl’anni, anche se ha ancora un’applicazione ristretta.
Al “Corso”, che comincia ad animarsi dopo le nove di sera, nello scrigno del breve rettangolo che separa il “Barocco”, l’esclusivo bar di Rocco Tavaglione, (l’inseparabile amico di “Cecco” Rosso e di Romano Conversano, il “Dante Alighieri” del gelato: la sua “crema degli angeli” sembrava schiudere, infatti, la porta del Paradiso. Poi Rocco lasciò e deluse tutti, attratto da attività che gli parvero più lucrose), la pizzeria-ristorante “da Peppino” (sempre superaffollata da una clientela che si sottoponeva volentieri a lunghi, estenuanti turni di attesa, con il “granatiere” Peppino Fasanella, che regolava l’ingresso e non ammetteva deroghe per nessuno, il “Marimà” di Celestina Mazzone, mescolati ai peschiciani, ma senza dare troppo nell’occhio, “ci si strusciava” facilmente con nomi famosi dello spettacolo, della finanza, della politica e della cultura: Aldo Fabrizi, Lando Buzzanca, Lucio Dalla (cliente fisso alla “Pescatrice” di Filomena Salcuni), le sorelle Catherine e Agnès Spaak, nipoti del grande europeista, in compagnia di Johnny Dorelli e del produttore cinematografico Giorgio Patara, Maria Teresa Balbo dell’M3, con il padre, senatore liberale, l’editore della sinistra extraparlamentare Gabriele Mazzotta, Giorgio Fantoni, il “patron” di “Electa” e di “Skira”, specializzate nella pubblicazione di curatissime, pregevoli edizioni di libri d’arte.
Seduti ai tavolini del “Barocco”, i torinesi Manlio Cavina, Giuseppe Cibrario, l’insigne otorino Paolo Menzio, con il cognato Santagostino (dell’omonimo marchio dei negozi di alta moda), i più importanti azionisti del “Villaggio S. Nicola” e del “Residence Solemar”, si scambiavano impressioni, previsioni e commenti: l’ora propizia alle confidenze è quella che segue la cena.
“Sotto il Ponte”, infine, aveva aperto “Carnaby Street”, l’elegante “boutique” di Fasano e De Finis (mosse di lì i primi passi Annino, diventato negli anni avvenire uno dei più irrefrenabili e capaci imprenditori turistici di Puglia).  
Sempre quasi all’alba, faceva una rapida apparizione insieme a compagne invariabilmente diverse, che potevano essere le sue figlie o le sue nipoti, l’indigeno Gaetano Vigilante che ballava il “twist” meglio di un negro (poca cultura, ma, in compenso, molta cordialità, entusiasmo facile e a comando, faccia tosta con le donne), mentre alla marina, spopolava il chimico foggiano e impenitente pescatore subacqueo Nicola Lioia, invidiatissimo per essere costantemente alle prese con bellezze mozzafiato ( i preti gli crearono la leggenda di dissipato e gaudente, ma, in realtà, si trattava degli amori e delle “scappate” di un qualunque giovane della sua età).

I locali, per così dire, “hard” si riducevano al “Maxy Club”, dove Enzo Fiocca, il fantasioso ed eclettico imprenditore salentino che, poi, sposò Vittoria Masella aveva creato scampoli di “dolce vita” (era il ritrovo dell’”hight life”, il regno notturno dell’età del censo e del denaro, dove si davano convegno la gioventù dorata e semidorata, ragazze in compagnia di sessantenni e sessantenni in compagnia di ragazzi) e, sulla strada provinciale  per Vieste, al “Saraceno” di Nicola Capraro, che ebbe vita breve e travagliata.
Puntuali, ogni fine settimana, ai tavoli del ristorante “La Pineta” di Mazzone e De Nittis (arredamento minimalista, atmosfera familiare, cortesia non affettata, pesce freschissimo e insuperabili e sapide minestre di verdure e legumi), Salvatore Spezzati, il costruttore foggiano che s’accingeva a mettere mano a “Coppa di Cielo”, la moglie Anna, e una “carovana” di amici di spicco: i magistrati Michele Ramundo e Mario Apperti, il notaio Dino Giuliani, il commercialista Vittorio Postiglione, l’ingegnere Vinicio Di Gioia, l’onorevole Franco Cafarelli (Nicoletta divenne avvocato, il locale chiuse i battenti e, purtroppo, il “gruppo” fu costretto a trasferirsi altrove). L’altro parlamentare, il Sottosegretario liberale Savino Melillo, invece, aveva casa nel complesso costruito da Ciro D’Adduzio, ma non faceva parte di nessuna “consorteria” e appariva un isolato.
Leonardo Vecchiet, docente dell’Ateneo teatino e medico della nazionale di calcio, reduce dal trionfo dei “mondiali di Spagna, in compagnia del vichese Vincenzo Rinaldi, direttore amministrativo di quell’Università, quando non era ospite di Raffaele D’Amato, non si stancava di rilasciare autografi alla “Collinetta”, che aveva aperto da poco.
Intorno a Enrico Dalfino, infine, il “gotha” degli imprenditori, dei professionisti e degli intellettuali più importanti e più influenti di Puglia (e non solo) aveva trovato a Peschici la sua sponda.
Dalfino, cultore sommo del diritto Amministrativo nell’Università barese, cresciuto alla scuola di Massimo Severo Giannini, impareggiabile “diplomatico”, garganico ormai, a tutta prova, aveva fatto conoscere Peschici “a chi valeva la pena di farla conoscere”, com’era solito dire.
A lui, di volta in volta, si accompagnavano Pasquale Donvito, esperto di Diritto Comunitario, Direttore Generale di Finpuglia, conoscitore insuperabile della “macchina” regionale (e dei suoi “segreti”), fine “gourmet”, che aveva per Enrico un rispetto e un affetto che confinavano con la devozione; Federico Pirro, il tonitruante redattore-capo   del  TG     regionale;  gli   architetti  Dario Morelli e  Paolo Pastore  e

’ingegnere Otto Dal Sasso, giovani, ma già elementi di punta degli Atenei di Bari e della Basilicata; l’ingegnere Angela Cirrottola, coordinatrice del settore urbanistico regionale (il “vero uomo” di quell’Assessorato, si diceva, ed era proprio così); l’economista Pasquale Rafaschieri e gli ingegneri Vito Armenise e Lorenzo Ranieri: giovani imprenditori che ben presto brillarono nel firmamento dell’economia e della finanza del capoluogo pugliese, dove avevano avviato l’entusiasmante esperienza di “Villa Romanazzi”, e gli “amministrativisti” Alberto Bagnoli, Felice Lorusso, Vincenzo Resta, Marida Dentamaro, Fulvio Mastroviti, gli allievi prediletti di Enrico, che portarono lo “stile Dalfino”, fatto di pulizia morale, di eleganza, di signorilità e, manco a dirlo, di profonda cultura, nelle Università, nelle Aule della Giustizia Amministrativa e, soprattutto, nella vita.
La sera il “Club Dalfino” si riuniva al porto, al ristorante da “Elia”, di Elia Mastromatteo, a un tavolo, in postazione defilata, allungabile, a seconda del numero dei commensali, e che si rimpolpava con la partecipazione “straordinaria” che, con il tempo, diventò “fissa” di Enzo Binetti, il magistrato passato alla politica, con ruoli significativi prima alla Regione e, poi, al Parlamento e al Governo, di Guido Meale e Corrado Allegretta, magistrati amministrativi, dell’illustre civilista romano Carlo Maria Barone, del professore di Diritto Urbanistico Sandro Amorosino, di Luca Buttaro, ordinario di Diritto Commerciale a Bari e spauracchio degli studenti di Giurisprudenza, di “Ninuccio” Labombarda e Alessandro e Carlo Cataneo, abili ed esperti imprenditori e finanzieri (cominciò da “Elia”, tra spaghetti alle vongole e cefali alla brace, sotto la magistrale regia di Dalfino, la scalata del “gruppo apricenese” al “S. Nicola”).
Ospiti immancabili e “aiuto-registi”, Matteo Mazzone e Matteo Biscotti i quali, tra i garganici, nella scala degli affetti del professore, “ex aequo”, occupavano il primo posto. Riferendosi a Dalfino, Matteo Mazzone ripeteva convinto all’altro Matteo: “Ci vuole bene. Ha capito che noi siamo come Gesù Cristo: senza una lira, ma con il cuore da gran Signore”.
Fu quella la “belle epoque” del “club” a Peschici. Ma, poi, Enrico, aderendo alle pressanti sollecitazioni di Enzo Binetti e di altri innumerevoli amici, decise di scendere in politica e fu eletto Sindaco di Bari. “I valori veri” – ricordava agli amici di Peschici che lo avvicinarono in quei giorni – “restano in prima linea, gli altri scompaiono”. E quando gli si chiedeva se si trattasse di una scelta definitiva, rispondeva, con un sorriso, così: “Se volendo andare da Bari a Peschici, ti accorgi di aver sbagliato strada, non torni forse indietro?”.

Le cose, purtroppo, andarono diversamente. Il “brindisi” per la sua elezione a “Villa a Mare”, il grazioso “relais”, dove Matteo Biscotti era approdato, dopo i fasti della “Grotta”, fu l’ultima occasione vissuta in serena allegria, con Graziella, Stefano e Walter che colmavano il professore di mille premure (Oscar era un ragazzino): a loro bastava la felicità di sapere che uno dei “nostri” era arrivato primo.
Ben presto, però, il “vero signore” fu stritolato dalla macchina infernale dei Partiti e costretto a subire le invidie e le gelosie delle “mezzecalzette”. Accettò con esemplare garbo istituzionale e senza replicare perfino il pesante e scomposto “intervento” del Capo dello Stato, Cossiga, in occasione dello sbarco a Bari dei profughi clandestini del “Vlora”, ingabbiati nello “Stadio della Vittoria”, e ai quali Dalfino cercò di assicurare condizioni di accoglienza meno disumane.
Ormai, a Peschici veniva di rado: un pasto frugale, un saluto, un abbraccio, e via. L’ultima volta che lo incontrai, mi bisbigliò all’orecchio: “Che vuoi, a Peschici le cose belle finiscono prima di finire”.
Il male incurabile, vissuto con la sua personale “educazione” alla morte (affranti, ce ne davano notizia Otto Dal Sasso e Tonino Nasuti, Segretario Generale del Comune di Bari, e nostro compagno di studi liceali a Monte Sant’Angelo) stava rapidamente consumando il Sindaco buono, savio è sfortunato, l’ultimo uomo delle Istituzioni che la Puglia abbia conosciuto.
Un paese civile, diverso da tutti gli altri, felice eppure ancora con molte sacche di povertà cambiava registro. Un’epoca era finita.
E ora, come vanno le cose di Peschici? È  meglio? È peggio? Qui i pareri si fanno discordi.
Sono passati oltre trent’anni… Per il prodigio dell’illusione, “Sotto il Ponte” (è già caduta la notte), per quanto i vetri siano chiusi, giunge l’eco del “chiasso” cantilenante di Antonietta e, di fianco, si fa sentire la voce di Celestina, che dà le ultime “beccate” della giornata. E ancora, le campane di S. Antonio con i rintocchi di qualche “novena”, i soliti lumi opalescenti per la prima nebbiolina e, in lontananza, il rumore catarroso di un motorino.
Tutte voci, tutti aspetti consueti, saldamente ancorati di tutte le sere.
Eppure, basta un filo d’aria più vivo e più fresco, una ventata di profumo di cucina, per ridarmi la sensazione dell’odore respirato certe sere, uscendo “da Peppino”.

È un attimo, un attimo in cui tutto l’animo mio è nel mio odorato, in questa rimembranza olfattiva dei calamaretti con il nero e delle “crocchette” di patate, che suscita subito un turbinio di immagini e di sensazioni: i riflessi delle candele infisse nei colli di bottiglia, i volti degli amici, le odalische di Romano alle pareti, la conversazione smagliante di Enrico, la voce gentile e il sorriso di Arcangela, mentre dispensa “delicatezze”, le dispute di quelli che si avviano verso “Villa a Mare”, per tirar tardi la notte…
Infine, l’abisso dell’“irreparabile tempo” che si spalanca dinanzi ai piedi, di tutte le sere come questa, svanite e irripetibili: sono io stesso, riveduto da me, come se fossi un altro, attraverso un velo di ineffabile malinconia.

P.S. Qualche settimana fa, un evento: è stata posta la prima pietra per la costruzione
        del  Liceo. Lo scenario   prossimo  venturo, dunque, sembra  preannunziarsi di
         respiro e di ritmo nuovi:  fiorisce  la speranza che Peschici  tornerà “a riveder
         le stelle”.

Giuseppe Maratea