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Vieste – Polmoni e libertà. Riceviamo e pubblichiamo

Come un miraggio scolpito dalla luce, così è Vieste – la terra – ossigenata dal silenzio salutifero degli uomini (parlano le case accalcate). Gli scorci tacciono con le coste e le spiagge, sospesi negli occhi di una curiosità storica. Le campagne si richiamano nell’eco delle fronde. Sempre mute restano le nuvole, viaggiano sostenute dal vento; il mare riflette la superficie delle metamorfosi aeree. Un autoscatto della natura per una cartolina autentica, senza destinatari e senza mittenti. Una beffa. Ma è un momento, una parvenza dovuta a una striscia di tempo, il tempo di un’infezione. Ci ritroveremo.
Se le città respirano in una solitudine fortunata, ingabbiato l’uomo vive con la psiche messa a dura prova, in attesa del vaccino che lo liberi. Pieno di speranza, nel frattempo guarda, ascolta, legge, spesso scrive il suo disagio col mondo. Nella clausura prosperano le riflessioni, queste ne sono un esempio.
Pensieri vaganti depositati dalle giornate d’ozio – lo scrivere come pratica del tempo libero –, Considerazioni inutili agli stimoli di qualsivoglia rinnovamento sociale. Nessuna parola per i riformatori dell’umanità, con lo spirito debosciato dal profitto, il destino dei popoli è cosa scontata: un grande animale ammansito dalle mani lascive degli stati e dei suoi adescatori.
L’unica ambizione sarà quella di rivolgersi alla sovranità del singolo, all’individuo che si sente padrone solo della sua ombra. Con gli altri si condivide l’osservanza delle norme restrittive: la salute prima di tutto.
Mala tempora currunt, ma se ne preparano di peggiori. Non sarà la salute a preoccupare. Alcuni mesi in compagnia di un virus ci garantiscono 10-20 anni di sane argomentazioni socio-finanziarie. I risvolti non saranno di natura medica, ma di sfacelo economico, con tutto il suo fiume di melma che si riverserà nel mare dell’esistenza. Si spera nel buono che si cela nelle sciagure: “ne usciremo diversi”, “l’uomo sarà più responsabile, capirà cosa conta veramente”. È ovvio! Rivoluzioni sociali, religiose, economiche, scientifiche, stravolgimenti che hanno agito sui millenni tranne che sull’uomo: le forze immutabili che lo governano – dell’istinto e della storia – inducono a cambiare palcoscenici e registi, ma non il copione. A teatro, a riproporre vecchi vizi vestiti di nuovo pelo.
Storditi e smemorati, come si reagisce davanti a una comparsa imprevista, a un personaggio sconosciuto? Un caso eclatante è l’apparire di una epidemia, contagio sempre in marcia nelle tenebre (oggi abbastanza illuminate), quando tutta la società è in preda alla paura, con il rischio di consegnarle la propria dissoluzione. Pronta anche alle peggiori delle schiavitù, l’umanità è disposta a donarsi ai più insulsi faccendieri: i mercanti si contendono la tratta sia col sacro che col profano. Dalla matrice religiosa, inutile un ripristino delle forze celesti, per noi troppo ambigua e terribile è la collera della misericordia divina. Tra gli esempi di timoroso sospetto, il secondo libro di Samuele 24: Dio propone al più grande dei re (naturalmente peccatore) tre sciagure per il suo popolo. Angosciato, Davide sceglie i tre giorni di peste, evitando i tre anni di carestia e i tre mesi di fuga davanti al nemico: meglio cadere nelle mani di Dio che nelle mani degli uomini.
Più efficace della tirannia celeste è la tirannia del vero. La schiavitù al servizio della “vera” verità è chiara e dignitosa. Un capolavoro da alcuni secoli nei laboratori dell’intelligenza umana: la scienza – insieme all’informazione, alla bellezza, all’arte e alle scarpe di pelle – ci salverà (da cosa non lo sappiamo, forse da altre superstizioni non allineate). Ma da sinistra a destra, da meridione a settentrione, anche la scienza vacilla cedendo il comando alla tecnologia, sua figlia snaturata e fuori controllo: è lei l’ispettrice generale, angelo disumanizzante.
Viviamo tempi di frodi planetarie, manovre per docili schiene e dure cervici. Siamo tutti intronati da un silenzio assordante, quello di una cultura tutta votata alla mercificazione. Il mondo è nelle mani di figuri senza volto, i rappresentati visibili sono accattoni prezzolati. Crisi e pericoli subdoli mettono a tacere ciò che accomuna i cuori, trasformandoli in simboli da zuccherificio diabolico. Ci unisce la paura lenta e solitaria, il vagare in un labirinto di tanti piccoli terrori che sfociano in un’agonia intravista e travisata.

Notizia 22 04

Alla fine, interessa la malattia e non la sofferenza dell’uomo. Anche la sacralità del dolore ha fallito la sua funzione salvifica e trasfiguratrice della vita, il vivere monetizzato non lo permette. Rimettiamoci alla buona volontà dell’uomo. Le visioni di redenzione universale si offrono con spontanea naturalezza. All’augurio di una salvezza collettiva fanno da contraltare la pena e la solitudine dell’individuo, il sasso scagliato come pietra tombale o proiettile impazzito. Ma è solo nella dimensione individuale che si può trasformare il sepolcro in una porta del risveglio e lo sparo in un canto di rinnovamento. Purtroppo, è alla morte che sacrifichiamo l’esistenza, al nostro limite personale, non alla vita. E come potrebbe essere altrimenti: la vita è senza volto, non ha misura, non ha luoghi prestabiliti, è tutto lo spazio, tutto il tempo. Volendo scorgere, non solo simbolicamente, un luogo dentro di noi, del nostro corpo, che ci colleghi direttamente alla vita, questi è il torace, corazza dei polmoni: i mantici della condivisione, il veicolo di contatto tra esterno e interno. Sede di quel respiro che ci anima e tramite cui possiamo dire di esistere, il soffio vitale che non è nostro ma ci appartiene. Il respiro è l’apertura, mai chiusura: è il ricevere e il dare, il ritmo regolatore della vita.
Il saluto al mattino del mondo, l’inizio che riassorbe anche l’espressione della morte. Nessun sapere, nessuna conoscenza può creare l’alito del respiro. Davanti ai maestri di verità, faccio appello al poeta: “The Tree of Knowledge is not that of Life”. La vita, questa sconosciuta.
Incipit.

Francesco Lorusso (ass. Camera Cromatica)