Menu Chiudi

VIESTE/ VIAGGIO NEGLI ANNI DAL 1943 AL 2013. TRE AGITAZIONI DI PIAZZA (11)

La protesta per il pane

Il 19 marzo 1944 ero prossimo a compiere vent’anni. Quel giorno fui spettatore di un accadimento mai conosciuto prima: un tumulto di piazza. Questa che segue è la cronistoria di ciò che avvenne, così come mi fu raccontata dal protagonista principale, Vincenzo Forte, una mattina nella villa comunale. Ricordava quei fatti, lontani ormai più di trent’anni, con molta precisione e dovizia di particolari e, sebbene fosse stato uomo combattivo, ne parlava con serenità, quasi con distacco. Li riferisco nella loro essenzialità.

In quel tempo Vieste era sotto l’amministrazione militare degli anglo-americani. Da alcuni giorni non arrivava più farina nei depositi del paese e con quella ancora disponibile non si poteva più dare ai cittadini i giornalieri 150 grammi di pane stabiliti dal Governo.

Il sindaco, ritenendo di poter gestire meglio la situazione aveva disposto che il pane fosse venduto direttamente dal forno dei fratelli Caruso, che normalmente forniva anche i negozi di generi alimentari. Questa disposizione aveva provocato una lunga fila al forno, senza peraltro riuscire a dare i sospirati 150 grammi a tutti, onde la popolazione aveva preso a borbottare a voce sempre più alta.

La mattina del 19 marzo il mugugno sfociò in protesta. Verso mezzogiorno, sotto il municipio si raccoglieva un numeroso gruppo di cittadini che comincia a schiamazzare chiedendo la revoca di quella disposizione

Il sindaco Ignazio Ruggieri, in piedi sull’ingresso del municipio, cerca di calmare la folla spiegando la ragione del provvedimento contestato. Ma le sue parole non placano i dimostranti, che aumentano sempre più.

Vincenzo Forte, trovatosi casualmente nelle vicinanze, osserva per un po’ la scena, quindi va sotto il municipio. Ascolta anche lui, per qualche momento, il sindaco. Poi gli si avvicina e l’apostrofa: “Lascia il Comune se non sei capace di risolvere la situazione!”. Quindi gli stringe un braccio e lo sospinge verso il marciapiedi. Il sindaco si allontana. Il maresciallo dei carabinieri, a qualche passo di distanza, ritiene di non intervenire.

Assunta di fatto la guida della protesta, Forte sale sul Comune seguito da gente schiamazzante. L’avvocato Giovanni Spadea, collaboratore del sindaco, per placare i dimostranti, si mette a scrivere buoni per il pane: a ciascuno 150 grammi moltiplicato il numero dei componenti la famiglia.

Finita la distribuzione dei buoni, Forte scende seguito dai dimostranti. Si fa dare dall’usciere la chiave del portone municipale, fa sgombrare tutti e chiude. Quindi consegna la chiave al maresciallo dei carabinieri. Ha il senso della misura. Molti dimostranti vanno verso il forno Caruso, dove intanto si è formata una lunga colonna di persone. Ci va anche Forte. Cerca di calmare gli impazienti, spiega a tutti che adesso la manifestazione è finita. Ma non tutti gli danno ascolto.

Il proprietario del forno alza la saracinesca quanto basta per ritirare i buoni e consegnare la pagnotta di pane. Ma le persone da dietro premono, spingono. Qualcuno afferra la saracinesca e l’alza tutta. Allora quanti possono entrare nella panetteria entrano e la saccheggiano.

Il giorno dopo arriva a Vieste una pattuglia di soldati inglesi. Dall’ingresso del municipio un ufficiale parla ai cittadini che si sono radunati. Accenna al tumulto che c’era stato e avverte che i responsabili sarebbero stati puniti.

La sera, 14 dimostranti, Forte compreso, sono arrestati e passano la notte nella caserma dei carabinieri. L’indomani vengono condotti al carcere di Manfredonia. Ci stanno qualche giorno, poi, per l’intervento del Comitato di Liberazione della città, vengono liberati. Tranne Vincenzo Forte.

Un mese dopo a Vieste, nell’aula consigliare del Comune, si celebra il processo. Da Napoli è venuta una corte militare alleata che interroga le 14 persone arrestate la sera di S. Giuseppe. Fungono da interpreti un viestano sulla sessantina, Girolamo Denittis, che era vissuto alcuni anni in America, e un sergente della marina.

Depongono a favore di Forte alcuni stimati cittadini noti come antifascisti e anglofili: l’avvocato Berardino Medina, l’arcidiacono De Favento, il magistrato Mauro Del Giudice, qualche altro. Ma non basta a scagionarlo.

La corte, dopo breve permanenza in camera di consiglio, sentenzia l’assoluzione di tutti, meno Vincenzo Forte, al quale infligge un anno di reclusione. Amaro epilogo per l’uomo che del tumulto non era stato tra i promotori, che poi lo aveva guidato sulla via della ragionevolezza, che si era adoperato perché non degenerasse in atti di violenza.

Esultano gli assolti e i loro congiunti. Piangono i familiari di Forte. Ne sono toccati anche gli inglesi. Uscita la gente dalla sala, l’ufficiale più elevato in grado invita la moglie di Forte e i figli a restare ancora un momento: “Suo marito è il direttore del servizio di nettezza urbana – egli dice – ebbene, se vuole, il posto può tenerlo lei. Inoltre possiamo dare lavoro ai suoi figli che ne abbiano l’età”. Fu di parola. Il figlio diciottenne, Italo, studente, venne assunto presso la segheria di Mandrione, gestita allora dai militari inglesi. Lui, il condannato, scontò la pena nel carcere di Lucera.

Ma la storia non era ancora finita. Nel 1947 il processo venne rifatto dalla giustizia italiana che aumentò le pene. Gli incriminati per i fatti del 19 marzo 1944 vennero tutti condannati a sei anni di carcere, Forte a sette.

Ma non li scontarono. Appellata la sentenza presso la Corte d’Appello di Bari, il presidente manifestò stupore per la condanna in primo grado. E commentò. “Ma come, non c’è stato un ferito, non ci sono state aggressioni, non sono stati devastati uffici. Dov’è il crimine?” Vennero tutti assolti.

La ribellione del partigiano Bevilacqua

Un nuovo piccolo tumulto ebbe luogo a Vieste l’anno dopo. Ne fu promotore e capo Paolo Bevilacqua, viestano, reduce dalla guerra e poi partigiano.

Ciò che qui racconto l’ho ripreso dalla sua viva voce.

Antefatto. Nel 1941, Bevilacqua, sotto le armi in marina, si trova a Vieste in licenza di convalescenza. Una mattina, in fila con altre persone all’esterno della pescheria, aspetta il suo turno per comprare un po’ di pesce. Il pesce, in realtà, non è razionato, ma bisogna fare la fila perché non ce n’è per tutti. Mentre attende, nota che due militi fascisti, lì in servizio di sorveglianza, entrano in pescheria senza fare la fila, più di una volta, e ne escono stringendo nelle mani una carta col pesce. Evidentemente servono amici e compari. Bevilacqua protesta ad alta voce, insolentisce i due militi. Nasce la rissa, corrono pugni. Bevilacqua e un milite si agguantano, rotolano per terra, continuano a picchiarsi, finché non vengono separati.

La sera è chiamato in caserma dai carabinieri. Fa la sua deposizione dei fatti. Più tardi viene chiamato anche dal farmacista Mauro Liddo, ufficiale della milizia, che lo redarguisce per l’accaduto. Al momento la storia finisce lì.

15 agosto 1945. La guerra è finita da tre mesi. Paolo Bevilacqua, che dopo l’armistizio del ’43 ha fatto parte di una brigata partigiana nel Friuli, è tornato a Vieste. Ha rivisto il dottor Liddo nella sua farmacia, intento al suo lavoro. Il giorno dopo, sul marciapiedi di Corso Lorenzo Fazzini opposto a quello del municipio, incontra il maresciallo dei carabinieri con un appuntato. Egli lo ferma e domanda. “Marescià, com’è che a Vieste i fascisti sono liberi?, non gli avete fatto niente!”. Alla richiesta di qualificarsi mostra un documento attestante che è stato un ufficiale dei partigiani iugoslavi. E il maresciallo a lui: “Voi partigiani siete tutti banditi, vai a farti comandare da Tito”. Bevilacqua replica con asprezza e alza le mani per aggredirlo. S’interpone l’appuntato. Intanto si è radunata molta gente. Si levano applausi al partigiano. A certe persone, che forse non hanno nemmeno capito la causa della lite, procura visibilmente piacere quello che sta succedendo. A questo punto i due militari si allontanano a passi svelti. Bevilacqua rivolto agli astanti grida: “Chi ama l’Italia libera?”. Si sente in questa espressione che sono ancora vivi in lui le frasi suggestive della lotta partigiana. Gli chiedo: “Come hanno risposto?” – “Hanno gridato tutti di si”. Quindi si muovono ad occupare la caserma dei carabinieri, una palazzina in via 24 maggio, n. 20 (ora non più caserma). Dentro non c’è nessuno.

A questo punto tutti se ne tornano a casa.

Il giorno seguente arrivano i carabinieri da Foggia. Vengono fermate le persone più compromesse. Bevilacqua è arrestato e tradotto nel carcere di Lucera. Dal carcere spedisce telegrammi a Ferruccio Parri, Capo del Governo, ex, capo partigiano, a Palmiro Togliatti, segretario del PCI e Ministro della Giustizia e a Giuseppe Romita, socialista, Ministro degli Interni.

Mi disse che non sapeva se qualcuno di loro fosse intervenuto. Sta di fatto che dopo venti giorni fu rimesso in libertà e tornò nel Friuli.

Passano gli anni: Ogni tanto Paolo Bevilacqua viene a Vieste a passare un po’ di giorni di vacanza. Nei primi Anni Settanta si fa imprenditore turistico. Compra un terreno nella contrada S. Lucia e vi costruisce e attiva un villaggio residenziale a cui dà nome “Piccolo Friuli”. La regione in cui si era trasferito. 

Nel prossimo racconterò della terza agitazione del marzo 1951.

11 (continua)

Ludovico Ragno

Il Faro settimanale